"Caro amico, occorre forse dirlo proprio a te, che hai sopportato tante volte il peso di vedermi passare dal dolore alla sfrenatezza, e da una dolce malinconia a una passione distruttrice? Anch'io tratto il mio cuore come un fanciullo malato: gli è permesso ogni capriccio. Non dirlo in giro, però: c'è gente che me ne farebbe un rimprovero."
Quando Goethe (Francoforte sul Meno, 1749 – Weimar 1832) scrisse I dolori del giovane Werther (1744) aveva appena 25 anni. Lo scrisse di getto, in sole quattro settimane.
Un romanzo d’impeto, istintivo, attraverso il quale Goethe ha trasferito il suo stato d’animo e le sue emozioni sul protagonista, il giovane Werther.
In effetti, quest’opera, trae ispirazione dalla realtà, perché Goethe vi fece confluire, fondendoli tra loro, due avvenimenti realmente accaduti: il suo innamoramento per Lotte Buff, già promessa a un altro uomo e il suicidio di Jerusalem (Johann Friedrich Wilhelm), innamorato della moglie di un amico.
Pertanto, fatta eccezione per il finale tragico e definitivo, si può senza dubbio affermare che I dolori del giovane Werther sia anche un romanzo autobiografico.
La realtà è descritta da Goethe attraverso parole cariche di passione e intensità, che toccano vertici altissimi di poesia mescolate a una grandissima profondità e modernità di pensiero che investe non solo la sfera dell’amore, ma anche il rapporto con la vita, con la morte, con la natura, e con la società circostante, il tutto condito da una palese avversione per le convenzioni sociali e per il pensiero omologato che, evidentemente, imperava anche allora.
Colpisce il modo in cui Goethe riesce a vivisezionare gli stati d’animo del suo protagonista, il modo in cui descrive i suoi tumulti interiori, il dolore, il senso di sospensione e incompiutezza che si prova quando si desidera ardentemente qualcosa che non si potrà mai avere e quel senso di disagio che si avverte nel vivere in un contesto che non ci appartiene e in cui facciamo fatica ad integrarci.
Sono moltissime le implicazioni psicologiche contenute in questo romanzo e in un certo senso sorprende la lucidità e la consapevolezza con cui un giovanissimo Goethe le isola e le analizza. Una consapevolezza e una conoscenza di sé che in molti casi non si raggiunge nemmeno in età adulta o dopo sedute e sedute di psicoterapia.
Ma forse, non c’è da meravigliarsi più di tanto, in fin dei conti ci troviamo al cospetto di una mente illuminata, geniale, di una personalità estremamente complessa e poliedrica: uno dei maggiori pensatori, scrittori, poeti e drammaturghi europei.
I dolori del giovane Werther è un romanzo epistolare in cui la trama si sviluppa prevalentemente attraverso le lettere che il protagonista invia all’amico Wilhelm a partire dal 4 maggio 1771 e in cui racconta nel dettaglio, quasi come se scrivesse a sé stesso, sul proprio diario, il modo in cui trascorre le giornate durante il suo soggiorno a Wahlheim.
È proprio a Wahlheim che Werther farà la conoscenza di Lotte. Prima che gli venga presentata, le sue accompagnatrici lo mettono in guardia pronunciando delle parole che suonano quasi come profetiche: “Conoscerà una bella signorina… Stia attento a non innamorarsene. È già fidanzata con un uomo eccellente che ora è in viaggio…”
Werther, però, nonostante l’avvertimento, non può fare a meno di rimanere colpito dalla bellezza di Lotte e dalla delicatezza della sua persona, al punto da definirla come lo spettacolo più bello che avesse mai visto e infatti, non fa nulla per tentare di arginare quel turbamento che sente fin da subito dentro di lui, ma anzi, lo alimenta e lo nutre.
La fiamma di un cerino, a volte, ci mette un attimo a trasformarsi in falò. Tra i due la sintonia è immediata, le loro anime sono affini e il desiderio di conoscersi meglio e di trascorrere del tempo insieme è reciproco, perché sono sostanzialmente “uguali” e si riconoscono: puri, sensibili, genuini, curiosi, aperti al mondo circostante e anticonformisti.
Le intenzioni poste alla base di quel desiderio, però, sono differenti, perché Werther è palesemente infatuato di Lotte e sogna di poterla avere tutta per sé, quasi dimenticandosi del fatto che lei è già legata a un altro uomo; Lotte, invece, vede in Werther solo un amico caro, il più caro, con cui ama conversare, condividere il suo tempo e i suoi pensieri, con cui si sente a proprio agio e nei confronti del quale prova solo un affetto fraterno. Lei è fedele al suo Albert, con cui presto si unirà in matrimonio.
Albert ha una personalità opposta a quella di Werther (e della stessa Lotte) è l’esatta rappresentazione della borghesia dell’epoca, fatta di regole, convenzioni ed etichette vuote. È un uomo freddo, razionale e con una mentalità tutt’altro che progressista, però, nonostante ciò, Werther, per amore di Lotte e per il suo bisogno di starle accanto, instaura anche con lui un rapporto di sincera amicizia.
Più volte, infatti, nelle lettere inviate all’amico Wilhelm, quando Werther gli parla di Albert, quasi non si mostra geloso, non lo considera “odioso” e in alcune circostanze, esprime una sorta di apprezzamento per l’uomo, sottolineando quelli che sono i tratti rassicuranti del suo carattere, quasi a voler sincerare sé stesso che la sua amata, in fondo, è in buone mani.
Intanto passano i mesi, il rapporto tra Werther e Lotte si fa sempre più stretto e Werther è sempre più coinvolto e lascia che l’amore che sente dentro di sé cresca libero e florido. Lotte, invece, pare riuscire a controllare le sue emozioni. Rimane fedele al suo Albert, e nonostante sia consapevole di quel che Werther prova per lei, pur facendo attenzione a non illuderlo, cerca di preservare quel rapporto a cui tiene tanto e che rappresenta per lei una fonte di nutrimento importantissima, probabilmente la sola.
Werther, però, si rende contro che quell’amore impossibile sta diventando nocivo e che la vicinanza con Lotte stimola in lui pensieri distruttivi e dolorosi e così decide di allontanarsi da Wahlheim e trasferirsi in città per cercare di ricostruire altrove la sua vita.
La sua permanenza in città, però, dura poco e al suo ritorno a Wahlheim viene a sapere che durante la sua assenza Lotte e Albert si sono sposati. Questa notizia lo getta ancora di più nello sconforto e quel senso di impotenza e frustrazione con cui già conviveva, si fa sempre più opprimente.
Werther, acciecato e annientato dal suo dolore, totalmente incapace di reagire e al contempo di convivere con tutta quella sofferenza che ormai è diventata compagna fedele di ogni istante della sua esistenza, vede una sola via d’uscita: la morte.
“Si narra di una razza di cavalli che, quando sono terribilmente accaldati e agitati, d’istinto si squarciano con i denti una vena, per respirare meglio. Così io vorrei spesso aprirmi una vena che mi procurasse la libertà eterna.”
Werther non riconosce più sé stesso, è esausto, privo di energie e di entusiasmo, perché l’amore logora, così come la sofferenza. Ecco perché quando Barthes nel suo “Frammenti di un discorso amoroso” (trovate la recensione su Loudd https://www.loudd.it/recensione/frammenti-di-un-discorso-amoroso-/roland-barthes_4902) afferma che la sofferenza fa parte dell’amore, ha assolutamente ragione e non potrebbe essere altrimenti: “Soffro molto, perché ho perduto quello che era l’unico piacere della mia vita, la forza sacra e vivificante con la quale creavo mondi intorno a me: quella forza è svanita!”
Il desiderio di togliersi la vita e di liberarsi così da tutto quel tormento, si fa ancora più forte dopo che Lotte, durante uno dei loro ultimi incontri, vedendolo particolarmente sconvolto, lo invita a moderarsi: “Non si rende conto che inganna sé stesso, che di sua volontà si condanna alla rovina?... Perché dunque io, Werther? Proprio io, che sono di un altro?... Io temo, temo sia soltanto l’impossibilità di avermi a renderle così seducente questo desiderio.”
Da questo momento in poi, le cose precipitano ulteriormente e alla mezzanotte in punto del 21 dicembre 1772, con indosso il suo completo azzurro con il panciotto giallo, abito identico a quello che indossava il giorno in cui conobbe Lotte - “In questi abiti Lotte, voglio essere sepolto: tu li hai toccati, consacrati.” - pone fine alla sua agonia, sparandosi alla tempia – “Sono cariche… Battono le dodici: così sia, dunque! Lotte, Lotte! Addio! Addio!”
Un epilogo tragico, forse l’unico possibile per curare un dolore così grande, ormai totalmente fuori controllo. L’anima di Werther si era ammalata, il dolore e la sofferenza avevano superato ogni limite di sopportazione e come diceva egli stesso “…non si tratta di stabilire se uno sia debole o forte, ma se possa tollerare la misura del suo dolore, sia esso morale o fisico.”
In seguito alla pubblicazione del romanzo, esplose il fenomeno chiamato “febbre di Werther”: giovani di tutta Europa, andavano in giro indossando gli abiti di Werther, il suo completo azzurro con il panciotto giallo. Inoltre, negli anni successivi alla sua pubblicazione, si notò un incremento del numero dei suicidi, almeno 2000, in particolare proprio in quei paesi dove vennero pubblicate traduzioni del libro. Tanti giovani lettori hanno posto fine alla propria vita tenendo tra le mani una copia del romanzo e, in molti casi, indossando abiti identici a quelli di Werther.
Il Werther è considerato il simbolo dell’amore romantico, puro e totalizzante, ma anche e soprattutto dell’amore disperato e sfortunato che non può trovare appagamento nella realtà, ma nonostante ciò, esiste e resiste. Anzi, paradossalmente, è proprio quell’impossibilità a nutrirlo, a dargli forza, vigore e a renderlo immortale.
L’amore descritto da Goethe è enfatizzato allo stremo, nella sofferenza e nel dolore, al punto di sembrare quasi eccessivo, a tratti “caricaturale” ed inverosimile. Le sue riflessioni cariche di insofferenza sulla società e sulla mentalità dell’epoca, invece, sono quanto mai attuali. Riflessioni che io stessa, seppur contestualizzate nel nostro presente, mi ritrovo a fare e questo la dice lunga su quanto, evidentemente, l’uomo, nonostante il passare dei secoli, tenda a rimanere sempre imprigionato negli stessi cliché e limiti mentali. Come se il progresso riguardasse solo la tecnologia e non anche il pensiero.
Durante la lettura viene spontaneo chiedersi quanto ci fosse di vero in tutto quel disagio e quanto, invece, fosse frutto di invenzione artistica. In un certo senso la risposta ce la fornisce lo stesso Goethe quando, nel 1816, si trovò ad esprimere le sensazioni provate nel rileggere il suo Werther: “Non si capisce come un uomo abbia potuto resistere ancora quarant’anni in un mondo che già nella prima giovinezza gli appariva così assurdo.”
I dolori del giovane Werther non è una lettura semplice, e non mi riferisco alla forma, che anzi, è estremamente lineare e scorrevole, ma alla profondità dei contenuti. È una lettura che scivola lenta, come le giornate di Werther e come la vita di ciascuno di noi, nonostante certe volte ci dia la sensazione di prendere la rincorsa. Le parole di Goethe devono essere comprese, interiorizzate e digerite. Non ci troviamo difronte a romanzo, ma a un piccolo universo, in cui ogni singolo elemento sta proprio lì dove dovrebbe. Una lettura imprescindibile, di quelle da fare almeno una volta nella vita, perché quando si ripone il libro, ci si sente indubbiamente più ricchi.