La storia che ha fatto da contorno a questa uscita la conosciamo, mi sembra inutile ripeterla qui, oltre al fatto che non ho minimamente voglia di farlo. Ci tengo a dire soltanto una cosa, per quei pochi che avessero un qualche interesse a sentire il mio parere: l’operazione in sé mi è sembrata parecchio anacronistica e, con tutto il rispetto per una label che stimo tantissimo come 42Records, anche un pochettino triste.
Il formato fisico è finito, i negozi di dischi sono finiti, o meglio, sono cose che ancora esistono ma così come nel primo trentennio del Novecento le carrozze coi cavalli circolavano senza troppi problemi a fianco delle automobili: viviamo in un’epoca di transizione, è abbastanza facile che cd e dischi scompariranno del tutto nel giro di una generazione o due. Non c’è nessun ritorno del vinile, non ci ho creduto prima né tanto meno ci credo adesso.
Quello che è stato fatto nei giorni scorsi, con questo 45 giri uscito a sorpresa, disponibile in poche copie solo in alcuni selezionati negozi (e mi accodo ad alcuni gestori particolarmente arrabbiati per essere stati lasciati fuori: perché alcuni sì e altri no? Qual era esattamente lo scopo di tutta questa cosa?) e che in seguito sarebbe stato venduto online in formato ma anche in digitale su Bandcamp (alla modica cifra di 20 euro per due Mp3, ho creduto di aver letto male ma, a meno di clamorosi errori da parte della piattaforma, il prezzo è quello) è una semplice operazione pubblicitaria, un product placement volto a creare artificialmente hype per un istante, in maniera non dissimile da quanto escogitato dalla Lidl con quelle famose scarpe di cui oggi nessuno parla giustamente più.
Si stampa l’oggetto in poche copie perché così si gioca sull’oggetto di culto, aumentando conseguentemente la domanda, ci si compiace del fatto che per un giorno gli acquirenti si siano freneticamente dati appuntamento nei negozi di dischi esattamente come accadeva un tempo. È un tempo che non ritornerà più e della trovata potrà senza dubbio essere percepito il retrogusto romantico, ma da qui al prenderla sul serio ce ne passa (sarebbe come se per un giorno decidessimo di andare tutti in giro senza cellulare per provare l’effetto del “com’era prima”; archeologia da museo e da rievocazione storica, niente di più di questo).
Quello che davvero vale, in questa operazione, è il contenuto. Perché attenzione, qui tutti sbavano dietro all’oggetto introvabile e si rischia di perdere di vista il fatto che I Cani hanno pubblicato scampoli di (ottima) nuova musica e che i Baustelle hanno tirato fuori quelle che sono probabilmente le loro cose migliori dai tempi di Amen.
Scusate, ma io di fronte alla bellezza di questo doppio singolo chino la testa e me ne frego se sia uscito in 45 giri, in cd, in musicassetta o in minidisc: l’importante è che sia uscito e che tutti ne possiamo godere (tra parentesi, lo potete già ascoltare tranquillamente su YouTube e immagino si possa pure scaricare illegalmente nelle solite sedi).
Si è parlato di “split” ma non è il termine giusto da usare: sui due lati del vinile ci sono due canzoni ma sono entrambe firmate da tutti e due gli artisti; non si può neppure parlare di featuring di qualcuno sul lavoro dell’altro, perché non è ben chiaro di chi sia il lavoro: Bianconi e soci giocano senza dubbio una parte quantitativamente preponderante ma l’intervento di Niccolò Contessa è molto di più di una partecipazione esterna, è un qualcosa che dà forma e sostanza al brano.
Meglio a questo punto parlare di una scrittura a più mani, ad un modo di operare che sfugge in parte alla forma canzone per abbracciare le modalità del Progressive, dove c’è un fluire libero delle idee e meno paletti attorno ai quali muoversi. Non è un caso dunque che i titoli “ufficiosi” (perché di fatto le due tracce si chiamano solo “Lato A” e “Lato B”) siano doppi: “Nabucodonosor – Essere vivo” nel primo caso, “Canzone d’autore – L’ultimo animale” nel secondo.
Lo schema è sempre lo stesso: i Baustelle iniziano, I Cani continuano, i primi mettendo in campo tutto lo scintillio della loro scrittura Pop (Bianconi indovina le sue melodie vocali più belle da quindici anni a questa parte, lo ripeto senza ombra di esagerazione), il secondo con una sorta di versione crepuscolare del suo periodo Aurora, andando così ad evocare un singolare quanto efficace contrasto con la cascata di colori della prima parte.
È anche un modo, questo di Contessa, di riprendere esplicitamente le visioni ciniche e malinconiche evocate dal collega, perché come al solito, dietro l’apparente spensieratezza si cela disgusto e disillusione, sia quando si lamenta la mediocrità della canzone d’autore contemporanea, sia quando si gioca con un immaginario di antichità orientali che già fu di Battiato, per andare comunque a dissolversi nella polvere dell’inconsistenza dei rapporti.
Non so da dove sia nato tutto ciò. Non so chi abbia avuto l’idea di mettere assieme due nomi che, in due decenni diversi, hanno cambiato la musica italiana ma che fino a questo momento non avevano mai avuto niente da spartire l’uno con l’altro; so solo che il valore di questa collaborazione è altissimo, tale da giustificare la speranza che da qualche parte ci sia nascosto un disco intero, da tirare fuori in un prossimo futuro per la gioia dei fan. O ancora, che tutto questo non sia che il preludio di quel ritorno de I Cani che in tanti non hanno mai smesso di attendere, indipendentemente dai responsi altalenanti di Aurora, perché chiunque, se messo alle strette, confesserà di essere convinto che Niccolò Contessa non passerà tutta la vita a fare il produttore dei dischi degli altri.
Qualunque cosa succeda, lasciamo perdere l’hype, il feticismo da formato fisico, le paranoie dei collezionisti e concentriamoci sulla musica. E questa musica, davvero, è tra le cose più belle che potrete sentire in questo ultimo scampolo di anno e non solo.