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REVIEWSLE RECENSIONI
14/10/2018
S.Carey
Hundred Acres
La narrazione di Carey è prevalentemente descrittiva, i colori sono tenui e autunnali, la natura è compagna benevola di un girovagare meditabondo fra campi di grano, foreste di conifere e specchi d’acqua che rapiscono lo sguardo, riempiendo il cuore di pace e di dolcezza.

Acro è un’unità di misura usata per le superfici nei paesi anglosassoni. Non è un caso che S.Carey, moniker sotto cui si cela Sean Carey, batterista e vocalist della band che accompagna Bon Iver, utilizzi un titolo così bizzarro per presentare il suo terzo album in studio.

Un termine, almeno all’apparenza, squisitamente tecnico, ma che nello specifico riveste connotati fortemente evocativi. Acro, infatti, richiama alla mente la campagna, rivelando il carattere bucolico del disco e suggerendo un genere, quello folk, che S.Carey interpreta con grande modernità.  E appare indubitabile, dopo qualche ascolto, che il songwriter originario del Wisconsin, abbia voluto creare fin dal titolo un legame forte fra l’ascoltatore e questa musica che si muove con stupore e delicatezza fra la natura, così ben rappresentata dalla copertina dell’album e dalle due belle foto che trovate all’interno della confezione.

Non ci sono, però, la neve né le temperature rigide che il Wisconsin raccontato da Justin Vernon ha spesso evocato (si pensi, ad esempio, alla copertina di Blood Bank); la narrazione di Carey è semmai descrittiva, i colori sono tenui e autunnali, la natura è compagna benevola di un girovagare meditabondo fra campi di grano, foreste di conifere e specchi d’acqua che rapiscono lo sguardo, riempiendo il cuore di pace e di dolcezza.

Carey ha mandato a memoria la lezione del proprio datore di lavoro, e Hundred Acres suona come avrebbe suonato For Emma Forever Ago, se fosse stato privato dalla feroce malinconia suscitata dalla fine di una storia d’amore, o anche come Carrie & Lowell di Sufjan Stevens, senza però il peso nostalgico dei ricordi.

Le canzoni di Carey, invece, si sviluppano nel presente, attraverso cento acri che mappano la geografia dell’anima e inducono a una serena contemplazione. Lo sguardo e i pensieri si perdono così nella melodia serica di Rose Petals, la cui morbidezza sfuma fra gli armoniosi contorni del crepuscolo, o nello sfarfallio tenue di Hideout, che sfiora carezzevole la pelle e le orecchie.

Domina la luce in Hundred Acres, e barbagli di sole attraversano la melodia cristallina di More I See, il tepore che accompagna il risveglio della bellissima Emery o il folk millesimato della title track, soavemente elegiaca. E quando Carey si abbandona all’abbraccio della malinconia, cesella i quattro minuti e mezzo di True North, gioiello di semplicità e poesia e perfetto breviario di struggimenti per cuori che senza lacrime non sanno stare.

Lontano dalla grandeur di certi dischi iperprodotti, Hundred Acres preferisce i toni sommessi, si muove con passo leggero scegliendo uno scarno armamentario sonoro composto di chitarra, piano, archi e un pizzico di elettronica, e inanella “una somma di piccole cose” (tanto per citare un bellissimo disco del nostro Niccolò Fabi con cui Hundred Acres è strettamente imparentato) il cui computo finale produce, però, grandi emozioni che arrivano dritte al cuore.