Due cose ci dice essenzialmente il ritorno dei Belle and Sebastian sulle scene, a tre anni di distanza dall’ultimo disco. La prima è una sorta di manuale di sopravvivenza al successo e alla dimensione iconica dell’essere artista: cosa succede quando non sei più la next big thing di turno, quando non hai più l’etichetta da “band di culto” ma vivi ancora, forte del tuo successo e della tua storia? La seconda è, invece, una risposta alla questione, ahimè sempre più annosa, della saturazione del mercato e del crescente deficit d’attenzione dell’ascoltatore medio.
Partiamo da qui, che è più facile: il nuovo disco degli scozzesi non è un nuovo disco, tecnicamente parlando, ma una raccolta di tre Ep che solo in un secondo momento sono stati pubblicati in modo unitario. Il risultato è curioso: se preso in toto, è un mostro da 80 minuti, troppo anche per i fan più sfegatati, forse. Se si guarda nello specifico, però, si scopre che i tre Ep sono usciti a tappe, a circa venti giorni l’uno dall’altro, e questo ne ha indubbiamente favorito la fruizione, ha permesso che ci si potesse concentrare sui singoli episodi, potendoli eventualmente apprezzare di più. Si è detto e scritto molto, sulla fine del formato disco e sul futuro della musica come dispersione liquida o invasione di playlist. La verità è impossibile da prevedere ma è certo che una scelta del genere, negli anni a venire, potrebbe anche rivelarsi vincente. Che è poi un ritorno alle origini, se ci pensiamo: tralasciando lo strapotere dei 45 giri agli albori del mercato, le più importanti band degli anni ’90 si sono fatte conoscere a colpi di singoli ed Ep, coi dischi di debutto arrivati solo quando il loro nome era già circolato in maniera consistente.
Per quanto riguarda il primo dato, le cose sono invece più complesse: Stuart Murdoch e soci sono cresciuti, si sono sposati, hanno messo su famiglia. Fare musica è sempre una passione ma è anche e soprattutto un lavoro, aspettarsi una riproposizione della freschezza e del romanticismo degli esordi sarebbe una pretesa priva di alcun fondamento.
Negli anni li abbiamo visti sfornare dischi su dischi, la qualità sempre alta, l’ispirazione e le intuizioni geniali non sempre presenti, fino a che, con “Girls in Peacetime Want to Dance”, sono andati a camminare su terreni che il loro pubblico più affezionato (ma non solo) ha trovato riprovevoli.
Parlare di “ritorno all’ovile” dopo che una certa voglia di sperimentazione ha scontentato i fan sarebbe forse un po’ scontato. Vero però che queste 15 nuove canzoni, se prese complessivamente, riportano in auge il loro vecchio marchio di fabbrica, situandosi più o meno a metà strada tra “Dear Catastrophe Waitress” e “Write About Love” (per quelli che trovano confortanti i riferimenti ai vecchi lavori).
Quest’ultima parte, a differenza delle prime due, mostra qualche calo di tensione: si sente molto la mancanza di singoli d’impatto (la vagamente Funk “Poor Boy” ha un bel tiro ma non è assolutamente in grado di lasciare il segno), a livello di “We Were Beautiful”, “The Same Star” e soprattutto “I’ll Be Your Pilot”, che parevano le cose più fresche che Stuart avesse scritto da molti anni a questa parte.
Qui il tutto suona un po’ come riempitivo, come esercizio di stile: bello ma superfluo. Per carità, loro sono sempre molto ben amalgamati e si buttano alla grande nei pezzi, con quella passione che non è mai venuta meno. Scrivere, sanno scrivere e le melodie sono sempre in grado di tirarle fuori: ascoltate “Too Many Tears” o “There Is An Everlasting Song” e vi renderete conto che non ci sono tante band così, oggigiorno, ancora in grado di giocare con il Pop, il Folk e di essere sempre e comunque convincenti. Il tutto, tenendo costantemente d’occhio la vita, quella vera: che non è solo intitolare un disco “Come risolvere i problemi umani” ma è anche interrogarsi su ciò che rende eterna una canzone; o parlare di amicizia, di legami affettivi, giocandosi la scontata e (proprio per questo) disarmante affermazione che “è semplicemente umano non voler essere da soli”.
Sono passati gli anni, “If You’re Feeling Sinister” è un lontano ricordo, lo stesso per “The Boy With the Arab Strap”, probabilmente dimenticati nelle collezioni di dischi di coloro che li hanno comprati sull’onda dell’hype ma che poi si sono diretti altrove. Stuart Murdoch, Stevie Jackson, Chris Geddes, Sarah Martin e tutti gli altri membri di un collettivo che è cambiato negli anni ma che ha tenuto sempre costante la sua forza propulsiva, hanno scelto di esserci sempre, di crescere assieme a quelli che hanno amato. Non sono più il gruppo del momento ma sanno ancora donarci belle canzoni; dal vivo, cosa non banale, sono ancora bravissimi. Credo che non si possa umanamente chiedere di più. Umanamente, appunto.