Gli Afghan Whigs sono il gruppo di Greg Dulli, storico cantante e chitarrista che, assieme al bassista John Curley nel 1986 ha fondato la band a Cincinnati, Ohio. Il gruppo, dopo l’esordio nel 1988 con un album autoprodotto (Big Top Halloween), è stato notato e scritturato dalla Sub Pop, con la quale nel 1990 hanno pubblicato il successivo Up In It. La matrice era quella che all’epoca andava per la maggiore: il grunge, ma le influenza soul, funk e r’n’b non sono mai mancate sin dagli esordi. Forse anche per questo è una band che a quei tempi ha incuriosito il sottoscritto, ma è forse la stessa ragione per cui dei loro è difficile trovare proseliti: nonostante il successo, è ancora un gruppo da scoprire per molti.
A mio parere il nome Afghan Whigs porta con sé un vissuto simile a quello che separa le persone che non hanno ancora visto serie televisive di culto come Lost o Breaking Bad da quelli che invece le hanno viste e le amano follemente. Da un lato emerge una reazione di pancia che porta quasi a discostarsi moralmente da loro, dall’altro invidi quelle anime ancora candide, perché potranno riattraversare quell’unica e irripetibile fase di conoscenza e passione che tu hai già vissuto, e che sai quanto può essere magica.
Con gli Afghan Whigs, inoltre, il processo di riscoperta è duplice, da un lato la band storica, attiva dall’1986 al 2001, poi lo scioglimento e quindi i nuovi Afghan Whigs (stessi componenti, ma tempi decisamente diversi) con la reunion nel 2011. Qualche album, progetti sempre calibrati e con quel respiro giusto di black nello stoner che li ha sempre resi particolari ed interessanti, quel quid in più che li fa essere più di una nota a piè di pagina di un’epoca.
L’ispirazione di How do you burn? è Mark Lanegan, il quale ha dato titolo (tratto dal suo modo di porre la domanda: che cosa ti fa eccitare?) e voce all’album, che segue traccia dopo traccia la vocalità di Dulli. Il risultato è un disco che non porta nulla di nuovo alla loro discografia, ma che la arricchisce con canzoni che possiedono frequenze che girano sulle giuste onde, suonate con l’intenzione giusta. Groove, tempi dritti con il charlie aperto, basso un filo distorto che prende il proprio spazio tra le chitarre, i bei fusti di batteria e le frequenze di organo o pad vari. E poi c’è lei, la voce che si pianta in testa con queste melodie lunghe e spietate, aiutate dal reverbero che incolla. Ci sono arpeggi di piano e di chitarra che all’unisono e col giusto effetto chorus ricordano perché il grunge facesse parte delle loro ispirazioni. Ed infatti le voci ne approfittano e stendono tappeti di cori su più livelli armonici ed emotivi, tanto da ricordare quasi gli Alice in Chains.
“I'll Make You See God” e “The Getaway” iniziano e finiscono nel migliore dei modi. Poi parte “Catch a colt” con la collaborazione di Susan Marshall e, nonostante il coinvolgimento inequivocabile dell’aspetto tribale e ritmico, la canzone mi si spegne tra le mani, dando sollievo una volta che arriva a conclusione. Nonostante tutto giri e il sound sulla carta sia ottimo, il gusto non coincide e l’armonia che si strascica in terreni non ispirati. Con la successiva “Jyia”, invece, spicca la collaborazione con Van Hunt e la sua marzialità, che convince almeno nella scrittura, più interessante, e nel connubio di timbri vocali che risulta decisamente azzeccato.
Due finali consecutivi affidati alla nota lunga di basso distorto che lentamente diventa qualcos’altro e parte “Please, Baby, Please”, la numero uno del disco, batteria da sola, implacabile tra lo slow e il mid tempo. Si pensa a Buddy Guy ed al suo stupendo Sweet Tea, si pensa a James Brown e tutto va bene, con calma e coinvolgimento. Si approda quindi alla successiva “A line of shots”, una marcia che funziona, forse anche per merito di un sottilissimo rimando - giocoso ma sul filo di una consapevole malinconia - a “Road to nowhere” e i Talking Heads.
La bella “Domino and Jimmy”, arricchita dalla collaborazione di Marcy Mays, con quell’insistente senso di vibrante scordatura data dalle basse a contrasto con un piano cadenzato di Wilsoniana memoria, porta altrove. “I’m your madness, baby (…) And you’re lost inside my head”.
La sospesa “Take me there” sembra avere l’intento di tenerti ancorato a lei, tra accenni di India e loop bassistici che rotolano nello spazio sonoro. Una bella melodia nel ritornello scolpisce parole nell’aria e sembra lanciare un messaggio diverso e più nascosto del “What you’re waiting for” che emerge da ciò che viene urlato per tutto il pezzo.
La breve e scarna “Concealer” sembra soffrire di un improvviso svuotamento sonoro, affidando ai reverberi il compito di riempire i tasselli mancanti, salvo scontrarsi con la cruda realtà: lo svuotamento è il pezzo, il suo significato e ce ne si rende conto quando si arriva all’esplosione sonora, bella e intrigante, nel suo gonfiarsi e morire in meno di trenta secondi.
“In Flames” si mette in un angolo con quel wurlitzer lievemente distorto che introduce ad un pezzo incerto tra il volere o non voler decollare, salvo farlo senza porsi troppi dubbi da un certo punto fino alla fine; una traccia sospesa, con archi trattati e pacchiani che sembrano volerci ricordare gli Oasis di Morning Glory.
Finisce l’album e si resta un po’ così, forse aspettandosi di più; sensazione, però, che ad un riascolto cambia, facendo emergere come il disco risulti davvero ben fatto. Una non immediatezza tipica dei dischi dove le cose belle fanno parte della scrittura, della composizione, dell’arrangiamento e del suono scelto. In How do you burn? non ci sono cose per cui si grida al miracolo o all’innovazione, allo spostamento fisico dei sensi durante l’ascolto fino a sentirsi parte di un qualcosa di nuovo che prima non c’era, ma gli Afghan Whigs ci sono, sono affascinanti e rendono questo presente ricco della loro esperienza e vibrante sintonia.