Ciò che soprattutto stupisce dei Pet Shop Boys, è l’incredibile longevità artistica. Non solo il fatto di essere sulla breccia ormai da quarant’anni (nel 2021 il duo britannico raggiungerà l’invidiabile traguardo), quanto semmai quello di aver mantenuto pressoché immutata (salvo qualche passo falso nel cuore degli anni ’90) la qualità della proposta.
Dopo gli ottimi Electric (2013) e Super (2016), Tennant e Lowe tornano alla ribalta con questo nuovo Hotspot, che se non fa gridare al miracolo, certo non delude le aspettative dei numerosi fan in attesa ormai da quattro anni.
Immutabili nel tempo e insensibili alle mode, i Pet Shop Boys continuano a scrivere con lineare coerenza le loro canzoni, circostanza vista da alcuni come un limite e da molti, invece, come un punto di forza irrinunciabile.
Consapevoli dell’ormai acquisito status di leggende pop, eppure sempre lontani dalle pose dello star system, Tennant e Lowe apparecchiano un disco con il loro consueto stile, alternando brani dance a ballate umorali e radiofoniche, tenendo i piedi ben piantati negli anni ’80 e gettando talvolta lo sguardo a dare un’occhiata nel decennio successivo. Niente che sia nuovo e che non sia già stato ascoltato, ovviamente, e né si registrano tentativi di modernizzare l’approccio, cosa che, crediamo, finirebbe per togliere spontaneità a un suono che è ormai un marchio di fabbrica.
Eppure, nonostante l’immutabilità della proposta, il duo continua a esprimere una classe infinita, a cesellare melodie di facile presa, con una confezione curatissima che alterna arrangiamenti densi e dal sapore orchestrale ad esplosioni ritmiche contagiose.
Tennat e Lowe centrano più volte il bersaglio senza fatica: l’iniziale Will-o-The- Whisp è una bordata trash efficacissima, Are You The One, Only The Dark e Burning The Heather ballate dal retrogusto malinconico e dall’appeal radiofonico che non lascia scampo, Happy People un ruffianissimo up tempo con vista sugli anni ’90.
Hoping The Miracle e I Don’t Wanna sono talmente vintage da suonare quasi come outtakes da Actually, anno domini 1987, mentre Monkey Business è un gustoso funky tirato nel groove e orchestrato con la consueta sapienza.
Chiude Wedding in Berlin, una tamarrata da balera di quart’ordine, di cui non si comprende il senso e che fa deragliare il treno proprio a due passi dalla stazione. Un passo falso, peccato, che nulla, però, toglie a un disco forse non imprescindibile, ma comunque molto divertente e in possesso di tutte le carte in regola per sbancare, nuovamente, le charts di mezzo mondo.
Ben tornati!