Volume sta a Milano, è sia negozio di dischi sia libreria, e già il fatto che esista e che lavori regolarmente costituisce di per sé una notizia. Negli ultimi tempi ha iniziato anche ad organizzare concerti e qui le cose si sono fatte decisamente interessanti, visto che ci è stata data la possibilità di assistere alle esibizioni di artisti che raramente o mai si vedono da noi. Solo per ricordare gli appuntamenti più recenti, dalla capitale lombarda sono passati l’Orchestra Tout Puissant Marcel Duchamp, Mason Lindahl, Mourning [A] Blkstar, Ben Lamar Gay, nonché un’accoppiata d’eccezione come quella composta da Eric Chenaux e Mary Lattimore. Senza dimenticare i nomi più importanti del nostro paese, dalle proposte più “roots” come i Meridian Brothers, agli artisti di “avanguardia” come Paolo Angeli.
Il tutto organizzato all’interno della splendida location dello Spazio 89, ottima acustica e ambiente ospitale alla periferia di Milano, non lontano dal quartiere San Siro. Il pubblico in generale ha risposto bene, un dato che autorizza una sorta di cauto ottimismo: parliamo sempre di come l’Italia sia poco ricettiva a certe proposte, è giusto quindi registrare le eccezioni. Gli Horse Lords non sono certo tra gli act più accessibili al momento in circolazione, vedere il posto così pieno è senza dubbio una bella notizia.
Ad aprire c’è Julia Reidy, australiana di stanza a Berlino, tre dischi pubblicati, l’ultimo dei quali, Vanish, risale al 2020. Si presenta da sola, chitarra, un desk zeppo di effetti vari, e inizia a suonare nel silenzio attento della sala, poche note ripetute, che vanno pian piano a costruire una melodia a tratti intricata, a tratti minimale, il suono dello strumento filtrato leggermente dall’effettistica, un uso discreto della loop station in alcuni punti. Su disco le composizioni sono poche e molto lunghe, qui di fatto c’è un unico brano da una quarantina di minuti, per lo più strumentale, con sporadici inserti vocali trattati dall’Autotune.
Folk spettrale a tinte scure, accostabile in linea generale ad un nome come Hanna von Hausswolff, anche se il songwriting della Reidy risulta più spostato verso il Folk tradizionale.
Un’esibizione senza dubbio affascinante, sebbene non facile. Appartiene comunque a quella quota di artisti che hanno fatto della ricerca pura la loro principale cifra stilistica, vedere il pubblico così teso e attento è senza dubbio una prova che, comprensibile o meno, si tratta di musica il cui fascino profondo può essere colto senza problemi.
Tutto un altro discorso per gli Horse Lords, decisamente più diretti nell’impatto e nelle intenzioni, seppure anche loro non siano proprio quel che si dice immediati.
Il quartetto di Baltimora ha tuttavia raggiunto un livello di notorietà niente affatto trascurabile, all’interno della scena cosiddetta “sperimentale”. Comradely Objects, uscito lo scorso novembre, ha contribuito senza dubbio alla crescita delle loro quotazioni, ma anche col precedente e altrettanto riuscito The Common Task erano riusciti a farsi notare.
Salgono sul palco alle 22 in punto, quasi in punta di piedi, col look e il portamento più adatti a degli impiegati di banca che a dei musicisti rock. Spetta ad Owen Gardner fare l’onore delle presentazioni: brizzolato, stecchino tra i denti, camicia d’ordinanza e occhiali da ragioniere, pronuncia un semplice: “Buonasera, ci chiamiamo Horse Lords”, in perfetto italiano, e dà il via alla devastazione. I quattro appaiono tranquilli e rilassati, del tutto in contrasto con l’energia che si sprigiona dalla loro interazione. Pochi o nessun orpello: hanno un laptop mediante cui lanciano delle sequenze, specie in quelle tracce che contengono inserti di tastiere e Synth, ma è davvero poca roba; il suono, per il resto è scarno e rigorosamente senza effetti.
Il centro propulsivo è costituito dal batterista Sam Haberman e dal percussionista Andrew Bernstein, che insieme formano un muro invalicabile di poliritmi, ora insistendo sulle stesse dinamiche in maniera ossessiva, ora variando l’assetto e l’intenzione del brano. I momenti che vedono i due impegnati assieme sono anche quelli maggiormente efficaci, dove il gruppo trova la sua dimensione migliore; Haberman suona anche il sassofono, strumento importante nell’economia della band, ma gli inserti migliori sono quando lavora da solista, svettando sulle ritmiche di Gardner con note alte e talora dissonanti, vicine al Free Jazz. Meno interessante quando si mette in secondo piano e funge da tappeto sonoro: in quel caso sono le geometrie minimali della chitarra a farla da padrone, ma l’assenza delle percussioni fa perdere un po’ di potenza.
Sono comunque dettagli, perché la prova offerta dai quattro è strepitosa. Menzione particolare anche per il bassista Max Eilbacher, molto vario nelle soluzioni adottate e sempre efficace, sia che distorca il suo strumento come una chitarra, sia che ricami melodie in dialogo con Gardner.
In queste composizioni potenti e stranianti rivivono il Math Rock dei Battles e le tessiture Post Rock dei Tortoise, oltre che un certo amore per l’astrazione tipico dei grandi nomi del Jazz contemporaneo come Sons of Kemet e Ill Considered.
Suonano un’ora abbondante e concedono altri quindici minuti di bis, davanti ad un pubblico totalmente preso, sia che fissi ipnotizzato le evoluzioni dei quattro, sia che si scateni in danze improvvisate dallo spirito tribale.
Serata perfettamente riuscita, a dimostrazione che se il promoter è coraggioso e se si azzecca il nome giusto, si può vincere anche la pigrizia degli ascoltatori e riempire un locale di periferia il mercoledì sera.