Abbiamo dovuto aspettare ben sei anni, ma ne è valsa decisamente la pena: dopo l’ottimo The Persistence, uscito nel 2018, i romani Kingcrow tornano con un nuovo disco, che si potrebbe definire, a ragion veduta, il migliore di una discografia fin qui inappuntabile.
Passati alla Season Of Mist, etichetta nota in ambito metal, la band originaria di Anguillara Sabazia continua con coerenza a proporre una musica che, pur essendo immediatamente riconoscibile, non è mai uguale a se stessa, cerca nuovi orizzonti, non accontentandosi di replicare tropi che, per quanto vincenti, toglierebbero vitalità al progetto.
In tal senso, l’etichetta di prog metal, spesso affibbiata aprioristicamente, sta davvero stretta a un disco che contiene in sé diverse, quanto seducenti sfaccettature. L’approccio prog non manca, e lo si può cogliere nella struttura complessa dei brani o nelle belle digressioni strumentali, così come, qui e là, i brani sono scossi da bordate elettriche che spingono verso sonorità decisamente hard. Ma complessivamente lo spettro è ben più ampio, e se ci sono alcuni punti di contatto con band come Leprous, Riverside e Pineapple Thief, per fare qualche esempio, lo stile resta personalissimo.
Dieci canzoni in scaletta che rifulgono di luce propria e un disco in cui tutto, ma proprio tutto, funziona benissimo: gli arrangiamenti complessi, senza mai essere ridondanti, il suono nitido e pulito, quasi scintillante, l’utilizzo centratissimo di un’elettronica calda e avvolgente, la capacità di costruire un impianto melodico limpido e orecchiabile, che acquisisce profondità grazie a un mood prevalentemente malinconico e riflessivo.
Il singolo "Kintsugi" apre il disco in accelerazione su un trascinante groove funky, e mette in evidenza un incisivo riff di chitarra, un ottimo lavoro della sezione ritmica, e un ritornello immediatamente uncinante. E’ la cartina di tornasole dell’abilità della band romana di essere diretta e accessibile, pur mantenendo standard espressivi elevati, per ricchezza e complessità espositiva. Una cosa che appare ovvia anche nell’andamento claudicante della successiva "Glitch", che combina magistralmente archi e sintetizzatori, su cui si muovono le belle linee vocali di Diego Marchesi, tra accelerazioni improvvise e momenti più sospesi e malinconici.
Un uno due micidiale, che è solo l’antipasto di un disco che non ha cedimenti. Il caos controllato di "Parallel Lines" è l’espressione più marcatamente prog del retroterra musicale dei Kingcrow, una canzone che mette in mostra le indubbie capacità tecniche del gruppo, abile nel giocare fra aggressività e stasi melodica, fremente elettricità e misurati elementi elettronici, mentre la struggente "New Moon Harvest" evidenzia il lato più oscuro e malinconico della band.
Il cuore pulsante del disco è rappresentato da "Losing Game", un brano che si gonfia lentamente in un crescendo di emotività che lascia senza fiato, e da "White Rabbit’s Hole", un’altra canzone atmosferica, avvolta da una coltre caldissima di tastiere che si dileguano di fronte all’ennesima incisiva accelerazione, in cui l’intreccio fra voce solista e cori produce nuovamente risultati strabilianti.
E se "Night Drive" parte morbidissima e cinematografica, per poi gonfiarsi di tensione trascinata da un riff ansiogeno, la conclusiva "Come Through", che si lascia alle spalle le due ottime "Vicious Circle" e "Hopium", sigilla il disco con una carezza, tra vellutati languori e dolci presagi.
Hopium è un disco splendido, che cresce ascolto dopo ascolto, e che conferma la caratura internazionale di una band che, con questo nuovo lavoro, tocca il punto più alto della carriera. Elegante, malinconica, audace ed emotivamente trascinante, quella dei Kingcrow, resta grande musica, qualunque etichetta vogliate darle. Tanto ciò che conta davvero è che quando metterete il cd nel lettore finirete risucchiati in un caleidoscopio sonoro che, per quasi un’ora, vi farà dimenticare il mondo circostante e le afflizioni della vita.