Diciamolo con onestà: la discografia anni Novanta degli Aerosmith è appena discreta, più che altro consente di veicolare nuovamente il successo attraverso l’etere e conquistare un pubblico più giovane anche negli show. Ma il gruppo, quello vero, con un’anima e un percorso da compiere, è quello di Get Your Wings, Toys in the Attic e Rocks, con quest’ultimo forse ancora maggiormente sperimentale e rivoluzionario dei precedenti. Honkin’ On Bobo, progetto del 2004 con undici cover e un inedito, ravviva una fiamma un po’ sopita, fa respirare quegli inizi ruvidi con un viscerale amore per il rock e un profondo spirito blues, quel blues sanguigno del Delta.
“Incidere nel 2004 un album di tal genere può sembrare una decisione strana, un suicidio commerciale, ma era assolutamente necessaria per la sopravvivenza della band. Honkin’ On Bobo è stato registrato in presa diretta con tutti i membri degli Aerosmith nella stessa stanza: i rapporti si sono rinsaldati, è stata una sensazione che non provavamo da tempo”.
Le parole di Steven Tyler confermano quanto si percepisce nel disco, un’unità di vedute, un divertimento che riportano i “ragazzi” ai bei tempi, quando il marketing contava già, ciò è indubbio, ma vi era più libertà creativa e tutto non dipendeva dall’esito di un solo lavoro pubblicato. Certamente queste riflessioni rimbombano pesantemente arrivando al giorno d’oggi, quasi vent’anni (e quasi cinquanta nel caso degli LP citati precedentemente!) dopo l’uscita dell’opera, in quanto la situazione da questo punto di vista sembra estremamente peggiorata. Rimane indubbio che gli Aerosmith abbiano all’epoca colto l’attimo e confezionato un album che “tiene bene” il tempo, un tempo che, tra l’altro, ha portato poche novità successivamente dal punto di vista di realizzazioni inedite in studio (rimane da ricordare solo Music from Another Dimension! del 2012) , ma, se pur tra una marea di vicissitudini, li ha comunque lasciati eternamente nell’Olimpo dei gruppi hard rock per merito di un’incessante attività live.
“Volevamo che le canzoni avessero uno stile riconoscibile, il nostro, senza perdere l’imprinting originale. Devo poi ammettere di non esser proprio capace di suonare la chitarra in maniera tecnologica. Non sono né un virtuoso, né ho modi raffinati. Il mio approccio allo strumento è rimasto quello di Mama Kin”.
Joe Perry non ha mezze misure nel descrivere le sue doti chitarristiche e l’attitudine con cui il quintetto si è accinto nell’esecuzione e nella scelta della cover. Sono state individuate composizioni che rispecchiassero nel migliore dei modi il marchio Aerosmith e ci si è lasciati andare, cullati dalle note che tanto hanno influito nell’infanzia e nella crescita artistica dei musicisti. Non solo i leader Tyler e Perry, ma anche Tom Hamilton, Joey Kramer e Brad Whitford non si sono tirati indietro e hanno messo dentro quella grinta che li ha sempre contraddistinti.
Certamente una formazione con così grande visibilità ha avuto il pregio di focalizzare l’interesse dei fan su un genere a cui si deve l’origine della musica moderna e che troppo spesso viene definito “vecchio” e senza una direzione, dimenticandone sia l’importanza, sia quanto invece abbia ancora proseliti e appeal pure in Italia, grazie a gruppi in grado di non onorarne solo la tradizione, ma capaci di cercare nuove strade. Sicuramente un rinnovato tragitto all’interno di Honkin’ On Bobo si ascolta nell’originale "The Grind", scritta dall’accoppiata Tyler/Perry insieme allo storico collaboratore Marti Frederiksen. Ecco combinarsi le classiche dodici battute con lo stile dei Bad boys from Boston, esperimento riuscito, tra chitarre fumanti e voce sofferta e lamentosa finale. “Ora non riesco a scendere dalla nuvola su cui eravamo, e ora è tutto finito. Dimmi perché non riesco ad andare avanti, non è una bugia quella dell'amore…”, sono frasi che ben rappresentano un testo con spunti blues, in cui il dolore della perdita viene descritto con l’immagine di “essere al settimo cielo” prima del crollo, del ritorno nuovamente sulla terra causa l’abbandono dell’amata.
L’antico spirito di gruppo, poi, si respira anche nelle riuscite cover, a partire dalla ruspante rilettura di "Road Runner", dal repertorio del fenomenale Bo Diddley, alle briose "Shame, Shame, Shame" e "Temperature", le quali si avvalgono di un ospite speciale al pianoforte, quel Johnny Johnson che fece le fortune di Chuck Berry. Fred McDowell è un altro loro beniamino ben rappresentato nella sofferta "Back Back Train" (con un irrefrenabile Perry leader vocale e al Dobro e Hurdy Gurdy) una potentissima "You Gotta Move" e infine una sentita "Jesus Is On the Main Line", valorizzata dal contributo vocale della talentuosa Tracy Bonham e da una slide guitar favolosa.
Il caro Steven Victor Tallarico, questo il vero nome di Tyler, che rimanda a origini italiane, suona il piano sapientemente qua e là e quando si mette all’armonica è in gran spolvero, rende con passione giustizia ai classici proposti; le già citate "Back Back Back Train", "You Gotta Move" e la debordante "Eyesight To The Blind" di Sonny Boy Williamson II godono in particolare della sua performance virtuosa. Inoltre bisogna aggiungere che erano anni che non graziava i solchi con una voce così ruvida. Basti ascoltarlo nella coinvolgente rilettura di "I’m Ready" di Willie Dixon, cavallo di battaglia di Muddy Waters, probabilmente uno degli apici del disco, e nella storica "Baby, Please Don’t Go", qui ricreata tenendo a mente l’energica rilettura dei Them.
"Stop Messin’ Around" è un dolce tributo a uno degli idoli di Joe Perry, quel Peter Green cui tanto deve il British blues e che spesso, ingiustamente, è stato dimenticato fra i Giganti della sei corde, mentre stupisce la scelta di "Never Loved a Girl", riadattamento del celebre standard di Aretha Franklin. Di primo acchito il pezzo sembrerebbe un poco fuori contesto, tuttavia il cantato così ispirato di Tyler e l’utilizzo dei fiati dei mitici Memphis Horns lo rendono speciale, perfetto per offrire varietà nella raccolta.
Jack Douglas, storico produttore di gran parte della discografia anni Settanta degli Aerosmith, ha sicuramente contribuito a ricreare quella magica atmosfera in questa nuova collaborazione con il gruppo. In particolare era anche in tale caso da parecchio tempo che la Gibson Les Paul di Perry non “luccicava” ed eruttava note ininterrottamente come in queste sessioni. Honkin’ On Bobo segna una tappa importante nella carriera dei “Ragazzi di Boston" e, forse per la prima volta, consente un abbraccio fra i fan delle diverse epoche, tra chi è cresciuto a pane e Toys in the Attic, e quelli che hanno scoperto il loro potenziale a partire da Get a Grip. Tutto per merito del Blues, nel cui ammaliante mondo persistono tristezza e dolore, gioia panica e profondo senso di esaltante aspettazione, in poche parole tutta la vasta gamma esistenziale della natura umana, che trova la sua celebrazione in questa musica.
“Il Blues… É da lì che siamo cresciuti, abbiamo attinto a quelle fonti della musica e fatto pratica con gli strumenti. Questa è stata la nostra forza”. (Joe Perry)