Rockettari di tutto il mondo unitevi! I Dead Daisies sono tornati con un disco tonitruante, undici canzoni che ascoltate a volume esagerato potrebbero mettere a serio rischio la tenuta dei vetri del salotto e i padiglioni auricolari dei vostri vicini.
Nato nel 2012, il combo australiano-statunitense è sempre stato un porto di mare, un supergruppo dalla porta girevole, che ha visto entrare e uscire dalle sue fila gente del calibro di Darryl Jones, Dizzy Reed (Guns And Roses), Marco Mendoza (Thin Lizzy), John Corabi (Motley Crue), solo per citarne alcuni.
Oggi, la formazione vede nella line up l’onnipresente David Lowy (chitarra ritmica), Doug Aldrich (Whitesnake, chitarra solista), Deen Castronovo (Journey, batteria) e, soprattutto, l’ultimo arrivato, il bassista Glenn Hughes. Hughes, che sostituisce Corabi e Mendoza (due piccioni con una fava), non ha bisogno di presentazioni, dal momento che si parla di un’autentica leggenda; a vantaggio dei più distratti, tuttavia, giova ricordare che ha militato nei Deep Purple e nei Black Country Communion. Mica pizza e fichi, insomma.
L’arrivo di Hughes ha prodotto un ulteriore innalzamento dell’asticella della qualità, tant’è che Holy Ground è di gran lunga il migliore dei cinque dischi fino a oggi pubblicati dalla band. Un album dal tiro pazzesco, più potente e cazzuto di ogni suo predecessore. Con Hughes al timone i Dead Daisies picchiano come se non ci fosse un domani, sono più feroci, e pur non tralasciando qualche gancio melodico, questi vengono assediati da assalti elettrici all’arma bianca che non fanno prigionieri. La voce inconfondibile dell’ex Deep Purple (ma come fa ad avere ancora quell’estensione?) e le sue portentose linee di basso avvicinano, oggi, il sound della band a quello dei più noti Black Country Communion, altro notevolissimo supergruppo in cui Hughes ha militato in condominio con Joe Bonamassa.
L’uno due iniziale è da capogiro: la title track e Like No Other (Bassline) sono due bordate che mandano k.o. Riff pesantissimi, la voce di Hughes che s’impenna gagliarda, mentre le linee di basso sono in grado di spappolare il più potente dei subwoofer. E’ tutto così, Holy Ground, uno tsunami che travolge ogni ostacolo e che trova nella lunga e conclusiva Far Away il suo unico momento di quiete: una splendida ballata avvolta da sinuose tastiere, che però nella parte centrale e nel finale s’imbizzarrisce in una sferragliante deriva elettrica.
Per il resto, non c’è un brano, uno solo, che tradisca le aspettative: dal riff ansiogeno di Come Alive, alle venature grunge della pesantissima My Fate, capace però anche di un irresistibile tiro melodico, dal furore selvaggio della clamorosa Chosen And Justified al rockaccio sporco e sudato di 30 Days In The Hole (cover presa dal songbook degli Humble Pie), che sembra suonata da degli Stones strafatti di anabolizzanti, sono alcune delle gemme di un disco che spara i suoi decibel ad alzo zero, proponendo, al contempo, una qualità di scrittura che ha pochi eguali in circolazione.
Holy Ground è, infatti, un disco di millesimato hard rock, che non guarda alle mode ma suona comunque moderno, che non cerca compromessi, ma raggiunge esattamente ciò che si prefigge: 46 minuti di pura potenza che vi lasceranno esausti e senza fiato, ma incredibilmente appagati. Play It Loud!