Brian Fallon ha raccontato di aver ufficialmente deciso di riportare in vita i Gaslight Anthem nel settembre del 2021. Si trovava nel suo New Jersey e si stava recando in un diner dove avrebbe cenato con Jon Bon Jovi e John Rzeznik dei Goo Goo Dolls, prima di partecipare ad un concerto di raccolta fondi in favore del governatore Phil Murphy. Fu lì, in macchina con sua moglie, che esternò per la prima volta quel passo a cui pensava da tempo, complici i lunghi tour da solista e l’isolamento della pandemia, eventi che gli avevano fatto balzare in primo piano la nostalgia di far parte di una vera e propria band.
Arrivati sul posto, Rzeznik e Bon Jovi, come se si fossero messi d’accordo, portarono il discorso proprio sui Gaslight Anthem, cosa che Brian prese come un segnale divino.
C’era però un ulteriore ostacolo da superare: quelle paure e quelle insicurezze che non lo avevano mai abbandonato e che si ripresentarono puntuali anche in quest’occasione. Come avrebbe gestito la reunion? Sarebbe riuscito a ricreare l’alchimia di un tempo con i suoi compagni? Sarebbe riuscito a scrivere di nuovo belle canzoni?
Il giorno dopo scrisse a Bruce Springsteen (i due sono amici dal 2009, quando condivisero il palco di Glastonbury con rispettive ospitate) che lo incontrò per una pizza il 23 settembre, proprio il giorno del suo compleanno, cosa che non poté fare a meno di colpire Brian. I suoi consigli e le sue rassicurazioni gli fecero perdere ogni indugio, telefonò agli altri ed eccoci qui.
È una bella storia, ma anche senza di essa, poco sarebbe cambiato. I Gaslight Anthem sarebbero tornati insieme, prima o poi, in qualche modo era già scritto. È un mondo musicale totalmente rivolto al passato, e se un progetto ha avuto successo e viene rimpianto dai fan, prima o poi lo ritroveremo, non importa quanti ostacoli ci saranno da appianare per farlo accadere.
Brian Fallon ha avuto una discreta carriera solista: tre dischi tra il 2016 e il 2020, una raccolta di canzoni natalizie l’anno successivo. Il tentativo di variare un po’ la proposta, diluendo l’elemento Punk (fortemente minoritario già negli ultimi lavori col gruppo) distaccandosi dall’impianto springsteeniano del proprio sound per abbracciare uno spettro più ampio di sonorità, con influenze che spaziavano dal Country ai Beatles.
Ci è riuscito parzialmente: il suo proverbiale immobilismo nel songwriting è un dato troppo rilevante per potersene liberare del tutto, e certo l’assenza dei suoi compagni di sempre non ha aiutato. Avevo scritto di tutti e tre i lavori e a distanza di tempo rimango della mia idea: buoni Painkillers e Sleepwalkers, bruttino Local Honey; in ogni caso, niente a che vedere con quello che faceva nella band.
È soprattutto per questo motivo che i Gaslight Anthem ci mancavano ed è dunque una bellissima notizia che siano di nuovo qui.
Riallacciare il filo dopo nove anni non è semplice e forse non è neppure il caso di farlo. La formazione è la stessa: oltre a Fallon sono della partita anche Alex Rosamilia (chitarra solista), Alex Levine (basso) e Benny Horowitz (batteria). Alla produzione è stato però chiamato un nome nuovo, Peter Katis, che ha lavorato, tra gli altri, con The National, Interpol e Death Cab for Cutie. Una scelta interessante, che riflette la volontà del gruppo di dare una rinfrescata al proprio suono, senza volere tuttavia reinventare una formula che si era già rivelata vincente in passato.
History Books non rinuncia (e forse non ne sarebbe neppure in grado) all’abituale trademark del gruppo ma la presenza di Katis dona al suono una spigolosità ed una potenza inedita; allo stesso tempo, in certi momenti, una dolcezza inusitata. In poche parole, meglio lui di Brendan O’ Brien e Mike Crossey, che forse avevano un po’ troppo assecondato la comfort zone dei quattro.
Non aspettatevi chissà quali rivoluzioni, sappiamo che non sarebbe mai potuto accadere, ma resta il fatto che le atmosfere di Get Hurt, oscure e lente, pesantemente condizionate dalla situazione emotiva che Fallon stava vivendo all’epoca, sono state definitivamente abbandonate. Controverso, quell’ultimo lavoro in studio, che personalmente mi piacque moltissimo ma che deluse non poco i fan storici, risultato che forse giocò un qualche ruolo nella decisione di interrompere il cammino.
Con una produzione più moderna e aggiornata al contesto odierno, queste dieci canzoni rappresentano di fatto un ritorno a casa, come già molto eloquentemente aveva mostrato la scorsa primavera il primo singolo “Positive Charge”. Al di là della citazione fin troppo sfacciata di “Seven Nation Army” nel riff iniziale, il brano è il classico assalto frontale dal sapore anthemico che a loro è sempre venuto benissimo, con l’aggiunta di un ritornello che già ci immaginiamo ad urlare a squarciagola ai prossimi concerti italiani (a proposito, per ora niente date da noi ma in passato sono sempre venuti, possiamo permetterci ottimismo).
Sulla stessa falsariga si muove l’altro singolo, “Little Fires”, l’episodio più duro e veloce all’interno di un disco che poco concede da questo punto di vista, ancora una volta un gran ritornello, e lo spirito di Joe Strummer ad aleggiare nell’aria.
Nell’opener “Spider Bites” ritroviamo tutto quel bel lavoro di chitarra portato avanti soprattutto da Alex Rosamilia, fraseggi melodici che si inseriscono nella sezione ritmica con grande efficacia, dialogando con uno sporadico pianoforte. La title track è un bel tributo al songbook americano, la presenza di un ispirato Bruce Springsteen a rafforzare il concetto, una cavalcata melodica e a tratti anche ariosa, con un Brian Fallon davvero ispirato sul fronte della scrittura. Difficile, onestamente, chiedere di più, per cui possiamo anche perdonare l’eccessivo citazionismo di un brano comunque sufficientemente ispirato come “I Live in the Room Above”.
Non si rinuncia del tutto al passato solista del loro leader, il Folk fa capolino da più parti, nella forma di ballate algide, con quel senso di nostalgia che il cantante è sempre riuscito ad evocare così bene. Su questo fronte la cosa migliore è “Michigan, 1975”, mentre “Autumn”, fin troppo telefonata, è nulla più che discreta, ed “Empires” è francamente trascurabile.
C’è pure una quota di epicità irlandese, con “The Weatherman” che sembra dialogare coi Flogging Molly e azzecca la melodia portante regalandoci uno dei momenti più belli dell’album.
A chiudere, la solita dose di malinconia che Fallon suole regalare a fine album: “A Lifetime of Preludes” è una ballata dal sapore Country con un ritornello dove le armonie vocali hanno un certo peso. Se su questo fronte “Here’s Looking at you, Kid” aveva detto tutto quel che c’era da dire, si tratta comunque di un brano gradevole, un buon modo per chiudere un disco che, pur non facendo gridare al miracolo, rappresenta un ritorno più che convincente, per un gruppo che in tanti attendevano da tanto, troppo tempo.