Non proprio meteore, ma quasi. La storia degli australiani The Vines ha avuto inizio con la luce accecante di un esordio che fece gridare molti al miracolo, e si è, poi, lentamente ma inesorabilmente affievolita: la band è diventata patrimonio di pochi fedeli fan, ha perso la centralità mediatica conquistata gagliardamente nel 2002, anno del debutto, continuando a rilasciare dischi onesti ma privi della brillante ispirazione che aveva conquistato tutti con l’opera prima, Highly Evolved.
Il gruppo nasce a metà degli anni ’90 nei sobborghi di Sydney, dove il cantate Craig Nicholls e il bassista Patrick Matthews sbarcano il lunario come camerieri di un McDonals. Ai due, che iniziano a coltivare sogni di rock’n’roll, si unisce il batterista David Oliffe, dando vita così al primo progetto chiamato inizialmente Rishikesh, nome scelto da Nicholls in riferimento a un luogo in India visitato, anni prima, dai membri del suo gruppo preferito, i Beatles.
Quando iniziarono a farsi conoscere suonando nei locali della natia Sydney, i giornali locali, però, per un errore di stampa, cambiarono il nome in Rishi Chasms, così i tre decisero di chiamarsi The Vines, nome suggerito dal padre di Nicholls, frontman di una cover band di Elvis Presley chiamata, appunto, The Vynes. La band, che nel frattempo aveva composto numeroso materiale, si trasferì a Los Angeles per iniziare le registrazioni del debutto, ma siccome i fondi scarseggiavano, il progetto naufragò quasi subito, Oliffe mollò il colpo (salvo poi rientrare alla base), e nella line up entrò a far parte Ryan Griffiths alla chitarra.
Ripresi i lavori, i Vines firmarono, quindi, un contratto con la Heavenly Records nel Regno Unito e con Emi in Australia (successivamente il disco fu distribuito dalla Capitol), mentre la title track pubblicata come singolo volava nelle classifiche di mezzo mondo. Quando l’album fu pubblicato (14 luglio del 2002), ottenne il consenso unanime della critica (la band finì in copertina su Rolling Stone e NME) e un inaspettato successo commerciale, piazzandosi al terzo posto in Inghilterra, al quinto in Australia e all’undicesimo negli Stati Uniti (merito anche di un altro singolo, "Get Free", che fece il botto ovunque).
Qual era, dunque, il motivo di questo successo travolgente? Semplice: la capacità di Nicholls e compagni di accostare nel loro sound due pilastri della musica rock: da un lato le asprezze grunge degli americani Nirvana, dall’altro, il tocco british di melodie prese in prestito ai Beatles, che, come accennato, era la band preferita del leader. L'originalità del disco non deriva, ovviamente, dall'imitazione pedissequa delle due icone musicali, quanto semmai dal mescolarle insieme, in un unicum omogeneo che solo i migliori artisti sono in grado di padroneggiare. Inoltre, la voce del frontman Craig Nicholls riusciva facilmente a evocare il tormento di Cobain quanto l’eleganza tutta inglese della coppia Lennon/McCartney.
Il miracolo fu che, invece di un pasticcio, il disco suonava equilibrato, feroce e melodico al contempo, suscitando notevole entusiasmo in tutti coloro che, amanti del classic rock, si sentivano eccitati da un accostamento apparentemente dissonante e invece perfettamente riuscito.
Le distorsioni e le urla di Nicholls sono il propellente della title track, che sfreccia per un minuto e mezzo, a tutta velocità, verso Seattle. Una potenza di fuoco che si spegne immediatamente in "Autumn Shade", ballata acustica, malinconica e vagamente psichedelica, che nel suo incedere strascicato ricorda i Fab Four, salvo perdersi, poi, in una coda strumentale che si dissolve nell’eco di una distorsione. "Outtathaway", secondo singolo estratto, è più realista del re, nel riprendere la pulsione grezza di certi brani di Cobain, in cui tuttavia non manca un piglio melodico lascivo e infuocato, così come "Homesick" è una delle canzoni più betlesiane mai ascoltate da fine carriera dei Fab Four. E se "Get Free" è un lanciafiamme esiziale insufflato di ustionante Seattle sound, "Factory" è un curioso tentativo di rileggere "Ob-La-Di, Ob-La-Da" in un’inconsueta chiave ska, che improvvisamente derapa, però, in contorsioni elettriche nirvaniane.
Se la versatilità dei Vines e la gamma vocale di Nicholls sono impressionanti, la band, però, aveva bisogno anche di dare vita a idee meno derivative, di uscire dal binomio Seattle /Liverpool, cosa che avviene con la rock disco psichedelica del midtempo "Sunshinin", guarda caso, uno dei brani migliori in scaletta.
Per la maggior parte, tuttavia, i fantasmi di Lennon ("Mary Jane") e Cobain ("In The Jungle") sono i capitani di questa nave pirata e battagliera, pregio e limite di un’avventura musicale finita, praticamente, con il seducente esordio. Che, se da un lato ha rappresentato il conturbante sogno erotico di ogni eugenetista musicale, dall’altro, ha abbagliato con l’urgenza espressiva, l’intensità e il furore di quattro ventenni capaci di riaccendere, anche se per una breve stagione, la miccia del rock’n’roll. Non un disco epocale, ma un piccolo, eccitante contributo alla storia, che merita di essere riscoperto.