La premessa in questa recensione è doverosa. Dunque, nel Gennaio del 2015 dopo una serie infinita di liti (nelle interviste, sul palco e desumerei anche di persona) i fratelli Robinson decidono di chiudere l'avventura The Black Crowes. Per quello che accade dopo questo triste evento (per chi scrive così è) c'è bisogno di qualche pillola per orientarsi. Chris Robinson, ugola d'ora dei Black Crowes, rafforza la Chris Robinson Brotherood, band dal sapore prog-frickettona con la quale aveva già dato alle stampe un paio di dischi, annoverando tra le sue fila l'ultimo tastierista dei Black Crowes Alan McDougall ed il talentuoso Neal Casal alla chitarra.
Il fratello Rich, altrettanto talentuoso chitarrista, intraprende la carriera solista, pubblicando qualche disco a suo nome, non troppo convincente a dire la verità, anche perchè il caro Rich difetta nella voce, troppo anonima soprattutto se confrontata con l'illustre familiare. Tutto chiaro sin ora? Bene, andiamo avanti. Nel 2016 Rich, da sempre il più nostalgico dell'avventura dei Corvi Neri, alza il telefono e chiama a raccolta alcuni ex-membri della band storica, nella fattispecie il chitarrista Marc Ford, il bassista Sven Pipien ed il tastierista Eddie Harsh. L'idea è quella che riportare sul palco alcuni classici dei Crowes, oltre a qualche tributo personale. L'ensemble si allarga ad un altro chitarrista (Nico Bereciartua) ed alle coriste, dando allo spettacolo live un impatto potente nonchè una connotazione molto soul, il tutto immortalato nel debutto live omonimo. Nel Novembre 2016, inaspettatamente, muore Harsch ma la band non si ferma, prende il suo posto Matt Slocum alle tastiere, l'organico viene ridotto a sei musicisti e finalmente vede la luce questo High Water I.
Al momento della pubblicazione di High Water I, il fratello Chris sta girando l'America con una tribute band dei............Black Crowes che si è data il nome di As The Crow Flies. Insomma, per alimentare la confusione e per confermare che questi due hanno fatto bene a prendere strade diverse.
Dunque è uscito in tutto il mondo il 10 Agosto scorso questo High Water I. Lo dico subito: siete nostalgici del rock/blues dei Corvi Neri? Amate gli anni Settanta e la musica "suonata"? Apprezzate certo folk-rock della west coast? Io si, ed è per questo che considero i Magpie Salute ed il loro High Water I una bella boccata di ossigeno in tempi magri, magrissimi.
La partenza è riservata alla potente "Mary The Gypsy", poco più di tre minuti di riffone led-zeppeliano, chitarre distorte in grande spolvero ed un assolo di Marc Ford che ci fa dire, finalmente, che ancora c'è spazio per le chitarre. Piccolo inciso: sono da anni grande fan di Ford, un chitarrista poco pubblicizzato, bluesy e mai sopra le righe; il suo ritorno accanto a Robinson ha ricreato i duetti epici di dischi stupendi quali Amorica e The Southern Armony and Musical Companion, di fatto i due dischi che hanno creato il mito Black Crowes. Bentornati!
Con la seguente "High Water" entriamo in atmosfere west coast, con l'acustica di Robinson a dettare il ritmo e Ford a lavorare di fino. Il ritornello ha un crescendo di certo non innovativo ma coinvolgente. E' un brano "liquido", che scivola come acqua fresca tra le mani ed ha il punto a favore di essere compatto nonostante i quasi sei minuti.
Terzo brano quella "Send me an Omen" già uscita come primo singolo ed una delle proposte più legate alla tradizione dei Black Crowes ultimo periodo. Anche qui grande compattezza e, quando meno te lo aspetti, un chorus beatlesiano che spunta nella selva di suoni. Tutti sugli scudi, è effettivamente il brano che presenta al meglio i The Magpie Salute, tra continuità e nuove aperture.
Come se non bastasse il terzetto di apertura, con la seguente "For the Wind" si arriva ad un apice inatteso. L'intro di chitarra acustica e voce (a proposito, Hogg non gioca a fare il Chris Robinson e porta a casa un'ottima performance), dolce, quasi a ricordare i Jethro Tull più evocativi e poi l'esplosione rock. Anche qui molto Led Zeppelin nella costruzione del pezzo, il contrasto funziona e la classe, beh, è tanta! E visto che non è permesso rifiatare, alla posizione n°5 arriva il pianoforte di "Sister Moon", delicata ed anche molto legata a certo rock americano (Ben Folds Five dice niente?). Una lieta sorpresa, sino ad ora il brano meno immediato eppure conturbante. Hogg alla voce non esagera e ne tira fuori una versione da brividi.
"Color Blind" oltre ad essere una bella canzone con un arrangiamento curato è importante anche dal punto di vista della scrittura, laddove Hogg stende un testo sulla questione razziale, lui figlio di madre svedese e papà africano cresciuto nei sobborghi londinesi. Un brano che colpisce.
Da qui ha inizio inoltre la seconda parte del disco, caratterizzata da una maggiore presenza delle chitarre acustiche e da arrangiamenti di gran classe. Sinceramente, mai avrei potuto pensare che i tre ex-Black Crowes, oltre ad essere musicisti di rock/blues di gran caratura, potessero scrivere ed arrangiare dei brani in maniera così elegante e certosina; insomma, dietro canzoni anche godibili sin dal primo ascolto, si percepiscono accordi e strutture che non sono nelle possibilità di tutti. Da citare il country blues di "Hand in hand", in cui gli echi al maestro Mississippi John Hurt sono evidenti, mentre "You found me" è più da chansonnier, con una lap steel che riempie la scena ed il solito grande lavoro di cesello.
Incredibilmente, le ultime due canzoni riservano altre sorprese. "Can you see" è un bel rock/blues dritto ed in un disco molto suonato ed anche complesso se ne sente il bisogno. La canzone ricorda molto certi episodi dei Crowes di "Three snakes and one charm", un disco ormai dimenticato eppure fondamentale per il viaggio alle radici della musica americana. L'oscura "Open up" chiude il disco e sembra un altro mondo, paragonabile a quei pezzi intimisti che i Pearl Jam abitualmente pongono al termine dei loro lavori; il brano è privo di manierismi o fronzoli ed è di forte impatto. Bella l'interpretazione di Hogg, emozionante.
Alla fine dell'ascolto si rimane sazi, soddisfatti da dodici canzoni che trasudano di blues, rock come ormai se ne ascolta poco e soprattutto una bella dose di Southern, anche se molto più edulcorato dei dischi a nome Black Crowes. Comunque li vogliate catagolare, se i Black Crowes 2.0, una band nuova di zecca o un manipolo di amici che tornano a suonare insieme, questo rischia di essere il disco dell'anno per chi è alla ricerca del vero rock americano. (Voto: 8)
Alessandro Raggi
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I Black Crowes non ci sono più e i due fratelli Robinson si stanno amorevolmente sul cazzo. Su questo non ci piove, visto che Chris, ex frontman della band, non perde occasione per ribadire il concetto e prendere le distanze dal fratello Rich. I fans e i nostalgici, però, hanno trovato conforto nei Magpie Salute, progetto revivalista messo in piedi da Rich Robinson con la collaborazione degli ex componenti della band dei Corvi Neri (a fianco del chitarrista si allineano in buon ordine Marc Ford alla chitarra e Sven Pipien basso.
Se il primo omonimo album, uscito lo scorso anno, faceva pensare a una sorta di cover band (in scaletta c’era un solo brano originale – Omission - mentre le restanti nove canzoni sono reinterpretazioni di brani dei Black Crowes, di Bob Marley, dei Pink Floyd, di Delaney and Bonnie e dei Faces) e, pur nella sua dimensione clamorosamente passatista, suonava comunque divertente e brillante, High Water I (il secondo capitolo è previsto per il 2019) è invece un album composto interamente di canzoni scritte per l’occasione e mette in luce, finalmente, uno stile ben definito e un suono godibilissimo.
Aleggia sulla scaletta, e non poteva essere diversamente, il fantasma dei Black Crowes (non è un caso che Magpie significhi gazza); tuttavia, in High Water I c’è molto meno southern rock di quel che ci si potesse aspettare. Se, infatti, episodi come Take It All o Send Me An Omen (singolo di facile presa, reso irresistibile da quei coretti deliziosamente retrò), richiamano in auge i fasti di un suono indimenticabile, in altri episodi la band cerca strade che si discostano dalla via maestra. Il rock distorto e martellante dell’iniziale Mary The Gypsy romba ai confini dell’hard e pompa subito nelle vene una buona dose di adrenalina.
La successiva High Water sceglie la psichedelia e innesca reminiscenze hippie, ma è un po' troppo lunga e verbosa per cogliere nel segno. Psichedelica è anche Walk On Water, con quel cantato dagli accenti quasi pinkfloydiani e, soprattutto, la splendida Sister Moon, ballata percorsa da fremiti nostalgici e resa memorabile da un ritornello anche in questo caso imparentato con la band inglese di The Wall. Hand In Hand è un discreto blues sudista, You Found Me un carezzevole ballatone country, mentre Can You See sfoggia un prevedibile e roccioso abito rock blues confezionato da chitarre agguerrite.
Chiude la cadenzata Open Up, ballata da crepuscolo in quota CS&N, chiosando alla grande un buon disco, che palesa però qualche difetto in fase di scrittura. Quando la band azzecca l’intuizione, però, sforna canzoni all’altezza della propria fama, regalando a tutti gli appassionati di classic rock qualche valido motivo per non sentirsi orfani di un glorioso passato. (Voto: 7)
Nicola Chinellato