Era da una vita, ben nove anni, che non avevamo notizie dei Damned Things, da quando, cioè, pubblicarono il loro fortunato esordio, Ironiclast (2009), che ebbe un buon riscontro sia di critica che di vendite. Si sa, però, che i progetti paralleli, soprattutto se riguardano super gruppi, hanno un’esistenza altalenante, segnata da uscite spesso estemporanee, perché dettate dagli impegni dei singoli membri con la casa madre.
E’ proprio questo il caso dei Damned Things, creatura partorita dal connubio tra Joe Trohman, chitarrista dei Fall Out Boy, e Scott Ian, chitarrista degli Antrax, a cui si sono poi aggiunti Keith Buckley, vocalist degli Every Time I Die, Andy Hurley, anch’esso militante nei Fall Out Boy come batterista, e da ultimo, Dan Andriano, bassista degli Alkaline Trio.
Un ritorno, quello con High Crimes, assolutamente inaspettato, e che nasce, come spesso accade, dal desiderio di uscire dalla routine di una carriera rodata e ben avviata, per tentare strade diverse, trovare nuovi stimoli o, semplicemente, suonare per puro divertimento, senza ansie da prestazione o stress contrattuali. I Damned Things sono soprattutto questo: una band, i cui membri offrono le proprie idee e la propria esperienza, per creare un ibrido che suoni diverso dal solito e, magari, cazzeggiare anche un po'.
Le dieci canzoni in scaletta, infatti, portano in dote diverse sonorità, plasmate con intelligenza in una miscela meticcia in cui confluisco punk, hardcore, metalcore e trash metal. Il tutto infiocchettato in un pacco regalo colorato di melodie a facile presa, che alleggeriscono il peso di chitarre rombanti e di una sezione ritmica che non perde un colpo.
Non c’è grande originalità in queste dieci tracce che corrono veloci, tirano dritto per la strada tracciata e arrivano esattamente dove vogliono. Si parte con la sgommata punk hardcore di Cells e si arriva alla fine con il metalcore urticante e malinconico di The Fire Is Cold, il pezzo più violento del lotto e anche quello meglio riuscito.
In mezzo, altre canzoni che sparano decibel e ritornelli orecchiabili, tra coretti e handclapping (Something Good), saltellanti hard blues melodici (Invincible, Omen), riff pesi con leggere pennellate di elettronica (Storm Charmer) e riusciti interplay chitarristici (Let Me Be (Your Girl)).
Tutto il disco tiene molto bene dall’inizio alla fine, e anche se non ci sono guizzi memorabili, la differenza la fanno quattro musicisti che stanno sul pezzo con attitudine e grinta, e un cantante, Keith Buckley, che canta con un’intensità che mette al tappeto.