Non sono ancora riuscito a capire se mi piacciono i Florence + The Machine (e neppure ho chiaro se sia giusto dirlo così, al plurale). Voce senza dubbio strepitosa, capacità musicali indubbie, livello di scrittura abbondantemente sopra la media, tuttavia c’è sempre stato qualcosa che non mi ha mai convinto fino in fondo. Di sicuro c’è che il successo che questo act britannico ha raggiunto negli ultimi anni è stato tanto concreto quanto divisivo: sono ormai tra le realtà più importanti del nuovo millennio eppure sono in molti a giurare che non se lo meritino per niente, che siano solo un gruppo tra tanti.
Io, come detto prima, non so da che parte stare. Florence Welch l’ho sempre trovata bravissima ma al contempo ravviso in lei una certa componente di manierismo, una cura formale a volte eccessivamente a scapito del contenuto e una superficialità ammiccante che è poi (penso malignamente) il fattore che più di tutti permette a lei e alla sua band di raccogliere consensi così ampi.
Questo quarto disco avrebbe dovuto inizialmente intitolarsi “The End of Love”, ma poi le suggestioni dei racconti famigliari contenuti nella canzone omonima devono essere state giudicate troppo cupe e si è optato per qualcosa di più aperto e solare.
È così solo in parte, però. Le dieci canzoni che lo compongono rappresentano forse il momento più intimo e personale della Welch, vanno a passeggiare sul sentiero dei ricordi e cercano in qualche modo di far pace con un passato che non è stato sempre così lineare.
C’è “South London Forever”, che riprende scene dei tempi del college, con le sbronze in quel Joiners Arms già immortalato nei dischi precedenti, le pasticche di ecstasy, le serate in cima ai tetti, in un susseguirsi spensierato di giornate che sembrava non dovessero finire mai. C’è, appunto, “The End of Love”, dove dice che la sua famiglia è stata salvata da un’alluvione e dove riaffiorano istantanee della nonna materna, morta suicida e già in precedenza ispiratrice di una delle canzoni più celebri del suo repertorio, “Only if for a Night”.
C’è “Grace”, dedicata alla sorella minore, con cui, si evince, i rapporti non devono essere sempre stati facili. Anche le muse ispiratrici vengono evocate: “Patricia” è infatti un sentito omaggio a Patti Smith, con tanto di citazioni più o meno dirette della sua opera.
In “Hunger” poi si cerca di fare i conti con quella fame di significato che è dentro ciascuno e che rimarrà comunque, un dato più evidente ed importante del fatto che non si sappia bene con che cosa saziarla. Lei dice di averci provato con le droghe, poi con la fama, in una prima strofa che ricalca in maniera sorprendente il Dante del “Convivio” (probabilmente non l’ha letto ma dopotutto si parla di un’esperienza che dovrebbe valere per tutti) ma di non esserci mai riuscita. Canta così, forse, perché come dice in “Big God”, c’è un buco dentro ciascun essere umano, che chiede di essere riempito ed è difficile trovare qualcosa che sia grande abbastanza. E poi abbiamo la conclusiva “No Choir”, dove canta la felicità del quotidiano, nella piena consapevolezza che “It’s hard to write about being happy, because the older I get, I find that happiness is an extremely uneventful subject”.
Indubbiamente basterebbero questi testi (peraltro lei è sempre stata molto brava con le parole e qui non fa che ripetersi) per illuminare la cifra di autenticità di un lavoro che dal punto di vista musicale sembra invece essere più trattenuto.
Ancora una volta le cose sono fatte in grande: c’è stato un cambio di produttore, con Paul Epworth sostituito da Emile Haynie, ma stiamo comunque parlando di gente che gioca nei massimi campionati. Ci sono due special guest d’eccezione come Thomas Bartlett e Kamasi Washington, che si ritagliano parecchi spazi a livello di arrangiamenti, la band suona bene come al solito ma il tutto sembra un po’ scarico. O meglio, la sensazione è che si sia voluta dare una sterzata “di atmosfera”, puntando di più sulla confezione sonora, per realizzare un prodotto che fosse più elegante e raffinato dei precedenti.
In effetti questo è un disco dove sono i fiati e le orchestrazioni a fare la parte del leone (c’è pure una presenza sporadica dell’arpa, assente dai tempi di “Ceremonials”) e dove di accelerazioni ce ne sono ben poche: “Hunger” ha un bel piglio nel ritornello, “Big God” è molto bluesy e vede un’interpretazione vocale più graffiante; “Sky Full of Song” è una bella cavalcata dal sapore Folk, scontata ma dritta al punto.
Al di là di questo, il resto del lavoro si assesta su brani di non facile presa, caratterizzati da un’interpretazione vocale maiuscola (ma anche questa non è una novità) ma che, temo, faranno fatica a lasciare il segno. Non c’è una “Ship to Wreck”, per dire, ed è un dato che potrebbe rivelarsi non proprio trascurabile.
Non è che manchino, anche in questa sorta di nuova direzione, episodi degni di nota: “100 Years”, per esempio, è un brano che sconfina quasi nel Gospel, con un grande intervento di Kamasi Washington e quel verso, “Give me arms to pray with, instead of ones that hold too tightly”, che dice davvero moltissimo dello spirito di questo disco.
Per carità, c’è sempre tanta classe ma c’è anche molto mestiere, forse più del necessario. Può darsi comunque che il pubblico non ci baderà troppo e che i Florence + The Machine continueranno a mietere consensi e a consolidare sempre di più la loro posizione nell’Olimpo del rock mondiale. Per quanto mi riguarda, la parola “sopravvalutati”, forse questa volta la possiamo spendere.