Non vengono dalla Florida come Morbid Angel, Death e Cynic. Non hanno registrato nel leggendario Morrisound Recording di Tampa. Non si sono fatti produrre da Scott Burns. Ma senza ombra di dubbio, lo spirito e la musica dei Blood Incantation arrivano dritti da lì, da quella stagione irripetibile durante la quale il Death Metal, da genere di nicchia, è esploso, uscendo – per quanto possibile – dall’underground.
Attivi dal 2011, i Blood Incantation vengono da Denver, Colorado, sono composti dal cantante e chitarrista Paul Riedl, dal chitarrista Morris Kolontyrsky, dal batterista Isaac Faulk e dal bassista Jeff Barrett e si sono fatti notare prima con l’Ep Interdimensional Extinction (2015) e poi con il full lenght Starspawn (2016). Due ottimi lavori, nei quali la band ha mostrato una fin da subito una grande maturità artistica, proponendo – grazie soprattutto alla perizia tecnica di ogni componente – una versione psichedelica e progressive del Death Metal classico.
Nonostante la distribuzione in Europa a cura della Century Media (sussidiaria del colosso Sony Music Entertainment), i Blood Incantation con questo secondo album Hidden History of the Human Race non fanno nulla per risultare più accessibili e andare incontro a un pubblico più trasversale, ma anzi, continuano imperterriti per la loro strada, proponendo una personale visione del Death Metal, nella quale ai riff di chitarra ultratecnici, alle batterie telluriche e alle voci cavernose tipiche del genere si alternano passaggi più eterei e psichedelici, sostenuti da celestiali passaggi di Synth e inserti di basso Fretless. Il tutto condito con testi dai forti richiami filosofici, nei quali vengono affrontati argomenti come lo spazio e la morte. Una ricetta intrigante, che da un lato prende a piene mani dai grandi classici del genere (i riff atonali dei Death, i testi filosofici dei Cynic, il basso Fretless di Steve DiGiorgio, l’assalto brutale dei Morbid Angel), ma dall’altro cerca di portare il Death Metal oltre le Colonne d’Ercole erette da un diòscuro come Chuck Schuldiner, attraverso un approccio alla musica “totale”, tipico di band come Greateful Dead e Can.
Album ambizioso come pochi, Hidden History of the Human Race in “solo” quattro canzoni per 36 minuti prende quanto di ottimo fatto in Starspawn e lo porta all’estremo: le canzoni sono ancora più lunghe e complesse, i riff molto più intricati e alla parte sperimentale viene riservato uno spazio davvero considerevole. Diventa così difficile isolare una canzone piuttosto che un’altra, dal momento che l’album è un’esperienza sonora totalizzante e immersiva, nella quale si alternano gli assalti all’arma bianca dei chitarristi Paul Riedl e Morris Kolontyrsky – che in un batter d’occhio passano dalle rasoiate à la Kerry King a parti più sognanti che ricordano il Kirk Hammett di “The Call of the Ktulu” – ai layer di Synth che percorrono “Awakening”, la suite finale in tre movimenti.
Registrato in presa diretta e in analogico «tra il solstizio d’estate e il passaggio di Sirio», Hidden History of the Human Race è un album fuori dal tempo, come ormai non se ne fanno più, così simile per intenzioni, impostazione e risultato a capolavori anni Settanta come Hemispheres dei Rush, di cui ricalca la struttura, oppure Tales of Topographic Oceans degli Yes, richiamato fin dalla magnifica copertina a opera di Bruce Pennington, illustratore famoso per il lavoro sui libri del ciclo di Dune di Frank Herbert.
Insomma, Hidden History of the Human Race è senza dubbio uno dei migliori album Death Metal da molto tempo a questa parte e forse anche di tutto l’anno in termini assoluti. Se al secondo lavoro i Blood Incantation sono già su questi livelli, non osiamo immaginare cosa riserverà per loro il futuro.