Giunti al tredicesimo album in 25 anni, i pionieri del goth metal portoghese hanno ancora la forza e l’ispirazione di scartare dall’ovvio, mantenendo così il loro suono ricco, elegante ed eclettico, rinnovandolo di album in album, e a volte, come succede nel nuovo Hermitage, di canzone in canzone.
Questo è senza dubbio un approccio che protegge la loro musica dalla stagnazione e dalla ripetitività, ma, per converso, ad ogni deviazione dal seminato, c'è sempre una fila di ascoltatori apparentemente sconcertati perché una nuova canzone non suona come suonava nell’album precedente.
E’ inevitabile che ciò avvenga, ad esempio, con l'opener minaccioso The Greater Good, che punta su trame sonore più morbide e su quelle voci pulite in gran parte assenti da 1755, concept album datato 2017 e dedicato al terremoto di Lisbona dell’anno citato nel titolo, le cui atmosfere erano decisamente più estreme e drammatiche.
Hermitage, invece, fin da subito si manifesta come un lavoro più opaco, enigmatico e riflessivo, dai risvolti sensibili e profondi (lo sguardo è inevitabilmente volto ai giorni della pandemia) ma comunque capace, all’occorrenza, di ferire i padiglioni auricolari con feroce brutalità, scartavetrando melodie malinconiche e placida quiete con gelidi riff metallici.
Verrebbe da dire, ad un primo ascolto, che i Moonspell si siano trasformati nei Pink Floyd del metallo, ma in realtà, in virtù di ciò che si diceva prima, i Moonspell sono e restano i Moonspell. Il quintetto per anni ha flirtato con dinamiche prog rock e con il dualismo luce e ombra, armonia e dissonanza. In Hermitage, semplicemente, queste caratteristiche trovano la loro realizzazione più completa, come appare evidente nell’acustica morbida e nebbiosa e nei languori meditabondi di brani come All Or Nothing e Solitarian, e nel mellotron che avvolge di malinconica bellezza Entitlement.
Non mancano certo momenti che mettono in chiaro che stiamo comunque ascoltando un disco metal, come accade nella drammatica The Hermit Saints, il cui violento riff dark spinge il cantato rabbioso di Fernando Ribeiro con l’intensità di un vento che flagella con violenza tutto ciò che incontra.
Hermitage è dunque questo: un disco in cui furia metallica e costruzione progressive sono abilmente bilanciate in un’alchimia sonora di cui il combo portoghese da tempo è maestro. Se vi piace il genere, non lasciatevelo sfuggire.