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REVIEWSLE RECENSIONI
02/04/2025
Avantasia
Here Be Dragons
Tobias Sammet porta i suoi Avantasia a generare un ulteriore capitolo della sua discografia: Here Be Dragons è un disco snello, che conferma la capacità di Sammet di scrivere ottime canzoni. Un progetto pop con un vestito metal e power metal, discreto e di mestiere, che si rivolge ad un pubblico prevalentemente mainstream.

Tobias Sammet è un gran paraculo e non lo scopriamo certo oggi. Dopo la consacrazione sulla scena Power Metal europea coi due capitoli della sua Metal Opera, uscita agli inizi del nuovo Millenio sotto il monicker Avantasia, l’allora frontman degli Edguy (la band con la quale il suo talento si era già da qualche anno dispiegato, attraverso un’ascesa lenta ma inesorabile, fatta di dischi uno più bello dell’altro) aveva giurato che quel progetto sarebbe rimasto una cosa estemporanea e che non ci sarebbero stati altri capitoli.

Sappiamo ovviamente tutti com’è andata: il plauso generale di pubblico e critica, una visibilità aumentata da un giorno all’altro in maniera esponenziale, le vendite stellari, e persino la gratitudine eterna da parte di tutta la comunità Metal per aver ricondotto all’ovile il figliol prodigo Michael Kiske, lo hanno fatto desistere ben presto dai suoi propositi: dal 2007, anno dell’uscita del nuovo capitolo The Scarecrow, Avantasia è divenuta una realtà costante anche in sede live, gli Edguy sono stati a poco a poco accantonati (l’ultimo album è del 2014) e ad ogni nuova uscita (con questa di cui sto per parlare siamo arrivati a dieci) siamo qui a lamentarci di quanto si sia venduto Mr. Sammet, di quanto la sua passione per il guadagno facile gli abbia fatto voltare le spalle alle sue radici.

 

Come al solito, si tratta di discorsi che lasciano il tempo che trovano: Tobias Sammet è un autore di canzoni gigantesco, ha scritto Vain Glory Opera e Theater of Salvation, ma che gli piacessero anche Bon Jovi, Europe e quella roba lì, non era mai stato un segreto; un certo tipo di Hard Rock ruffiano nei suoi Edguy l’aveva introdotto abbastanza presto (qualcuno si ricorderà di “Lavatory Love Machine”, che pure figurava su un disco scuro e potente come Hellfire Club) e lavori come Rocket Ride o Tinnitus Sanctus, di Metal in senso stretto ne contenevano decisamente poco.

Inutile girarci intorno: anche questo genere musicale, che pure appare molto meno in crisi di altri, ha subito gli effetti delle playlist, degli algoritmi e delle scelte di produzione ridondanti e pulitissime. Gli Avantasia è da tempo che si sono trasformati in un gruppo Pop: le cavalcate in doppia cassa, gli assoli di chitarra e un certo tipo di estetica potranno forse dire il contrario, ma le melodie, i suoni bombastici e vicinissimi a quelli di qualunque produzione mainstream, dicono esattamente il contrario.

Il Metal non c’entra nulla con questa roba qui. Avantasia è un progetto che si muove certamente in un certo tipo di contesto, ma che nel tempo si è sempre più indirizzato a quegli ascoltatori (giovani e giovanissimi, azzardo) che hanno l’esigenza di ascoltare cose “dure”, “pesanti”, ma che non avrebbero mai la preparazione o la sensibilità per farlo davvero. Non è un discorso da puristi, attenzione, è la semplice realtà dei fatti: quello che chiamiamo Heavy o Power esiste ancora, ma va cercato da tutt’altra parte.

Detto questo, a me gli Avantasia (trattiamoli come una vera band, che è più comodo) sono sempre piaciuti, perché, ripeto, Sammet sa scrivere canzoni come pochi altri e dunque, anche quando mette il pilota automatico e lavora di mestiere (e lo ha fatto negli ultimi dieci e passa anni, secondo me) riesce sempre a mantenersi ben al di sopra della soglia della sufficienza.

 

Here Be Dragons era atteso al varco per un paio di motivi: il cambio di etichetta (la Napalm Records, dopo una vita alla Nuclear Blast) e soprattutto la promessa che a questo giro ci sarebbe stato una sorta di ritorno alle origini, con un lavoro più semplice e diretto. La copertina in pieno stile Fantasy, disegnata da un colosso come Rodney Matthews, lasciava ben sperare che sarebbe davvero andata così.

In effetti il disco è più snello del solito: riprendendo il modello del precedente A Paranormal Evening With The Moonflower Society, si è scelto nuovamente di accantonare la formula del concept album, optando per una semplice raccolta di canzoni, dove anche la presenza dei vari cantanti è ridotta ad una mera ospitata, un duetto col singer principale senza nessuna esigenza di copione.

A proposito dei nomi coinvolti: accanto a veterani assoluti e inamovibili come Michael Kiske, Ronnie Atkins, Bob Catley e, in misura minore, Geoff Tate, compaiono esordienti illustri come Tommy Karevik, Roy Khan (come a dire, il presente e il passato dei Kamelot), Kenny Leckremo (H.E.A.T.) e Adrienne Cowan (Seven Spires). Assenza inspiegabile e pesantissima, quella di Jörn Lande, interprete di alcune delle più belle canzoni di questo progetto, nonché colonna inamovibile dei live show.

Sul fronte strumentale, sono ancora una volta della partita il batterista degli Edguy Felix Bohnke, nonché il chitarrista e produttore Sascha Paeth (ex Heaven’s Gate, mi piace sempre menzionarlo anche se non se li ricorda più nessuno) presente accanto a Sammet sin dal giorno uno. Il solito Miro Rodenberg è poi come sempre in cabina di regia ad occuparsi di tastiere e orchestrazioni, anche se bisogna dire che a questo giro la sua posizione è decisamente più defilata, visto che siamo davvero di fronte ad un disco meno elaborato e senza troppi fronzoli.

A parte quest’ultimo particolare, di differenze sostanziali non se ne vedono molte: l’apertura con “Creepshow” ci mette immediatamente in contatto con il Sammet più anthemico e caciarone, che firma un brano dal sapore AOR con un ritornello tanto per cambiare irresistibile. La title track, che arriva subito dopo, è l’unico episodio dalla lunghezza elevata (siamo sui nove minuti) e ha una struttura nel complesso articolata, con un Geoff Tate al minimo sindacale ma abbastanza incisivo, e ci regala qualche momento di reale ispirazione; è comunque interessante notare come non ci siano altri brani lunghi in scaletta (neppure in fondo, posizione dove spesso veniva piazzata una sorta di mini suite) e che il resto del materiale scorra via piuttosto snello, pur con qualche concessione alle atmosfere più riflessive e malinconiche (“Everybody Here Until the End” ha un piacevole feeling da Musical, mentre “Bring on the Night, con un Bob Catley stranamente senza sussulti, conserva un po’ quel tipo di epicità sognante tipica dei Magnum, con tanto di testo con citazioni da fan service).

 

Il tanto conclamato ritorno al Power Metal è semplicemente un espediente da comunicato stampa, ma è anche vero che anche stavolta la quota “speed” è presente, giusto per accontentare i puristi della prima ora: “The Moorlands at Twilight”, con Michael Kiske, è un gran bel pezzo ma non fa gridare al miracolo; “Unleash the Kraken”, una delle due che non vedono la presenza di ospiti (l’altra è “Creepshow”) e forse quello col piglio più veloce ed aggressivo e siamo sicuri che dal vivo farà la felicità dei più nostalgici.

Detto questo, non siamo di fronte a nulla di memorabile. Le cose migliori, almeno dal mio punto di vista, sono “The Witch”, un mid tempo abbellito da controcanti operistici e da un piacevole tocco di Synth, con un Tommy Karevik strepitoso ed un ritornello che, seppure derivativo e telefonato fino all’eccesso, spacca che è un piacere; e poi “Phantasmagoria”, rocciosa, dinamica e straordinariamente catchy, tenuta su da un Ronnie Atkins che in carriera avrebbe certamente meritato di raccogliere di più (i suoi Pretty Maids sono tra le band più snobbate di sempre). Non male neppure “Avalon”, che recupera sonorità vagamente celtiche e vede una delle prove vocali migliori del disco (Adrienne Cowan è veramente una forza della natura), mentre “Against the Wind” suona fin troppo manierista ma, ancora una volta, possiede una classe tale che è difficile non rimanerne affascinati.

 

In conclusione, Here Be Dragons è un lavoro discreto che non sposta nessun equilibrio. Tobias Sammet porta a casa ancora una volta il massimo risultato con il minimo sforzo, ma ma non riuscirà a fare felici coloro che hanno imparato ad amarlo con le sue prime cose. Gli Avantasia rimangono un progetto Pop con un vestito Metal, che si muove su una dimensione mainstream rivolgendosi ad un pubblico che ha anche una forte componente generalista.

Niente di male, intendiamoci. Mi piacciono molto e andrò a vederli dal vivo anche questa volta. L’importante è capire bene di che cosa si stia parlando.