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REVIEWSLE RECENSIONI
Henryk Górecki: Symphony No. 3 (Symphony of Sorrowful Songs)
Beth Gibbons / Polish National Radio Symphony Orchestra
2019  (Domino)
EXPERIMENTAL/AVANT-GARDE ALTERNATIVE
9/10
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08/04/2019
Beth Gibbons / Polish National Radio Symphony Orchestra
Henryk Górecki: Symphony No. 3 (Symphony of Sorrowful Songs)
Potrebbe sembrare strano che il ritorno discografico di Beth Gibbons avvenga con la registrazione dal vivo dell'esecuzione di un pezzo di musica classica contemporanea, per giunta risalente al 2014. Se ci si pensa bene, però, questo ritorno imprevedibile quanto pubblicizzato (se ne sta parlando da mesi, ormai) appare perfettamente in linea con le scelte artistiche del personaggio.

Una che, tutto sommato, si è sempre tenuta fuori dai giri e non ha mai risposto alle sollecitazioni del mercato. Ha pubblicato solo tre dischi con i Portishead (l'ultimo dei quali nel 2008, a nove anni di distanza dal secondo) e solamente un lavoro da solista, “Out of Season”, uscito nel 2002 con la collaborazione di Rustin Man. 

In secondo luogo, non è che la Sinfonia n.3 di Henryk Gorecki non abbia proprio nulla a che fare con il mondo del rock e dei suoi derivati. Tante le citazioni e le rielaborazioni illustri (il sottoscritto sceglierebbe su due piedi “Moya”, uno dei primissimi brani dei Godspeed You! Black Emperor ma ci sono stati anche Goldie, i Lamb e i Pale Saints, mentre gli Smashing Pumpkins l'hanno per un po’ utilizzata come intro dei loro concerti), per non parlare poi della particolarissima vicenda commerciale che l’ha contraddistinta. Ne ha già parlato benissimo Claudio Todesco in un articolo di qualche giorno fa per Rolling Stone ma mi pare giusto ricordarlo brevemente: la sinfonia in questione, composta nel 1976 e registrata in diverse versioni, di cui forse la più famosa è quella con l’interpretazione della soprano Stefania Woytowicz e la direzione di Antoni Wit, scalò le classifiche nel 1993 (in Gran Bretagna arrivò al sesto posto) dopo che fu registrata dalla London Sinfonietta diretta da David Zinman e pubblicata dalla Nonesuch; caso più unico che raro di un'opera “colta” che arriva al grande pubblico. 

Situazione strana, anche pensando al tema della sinfonia stessa: “Symphony of Sorrowful Songs” dice il sottotitolo ma la sostanza è decisamente più complessa: al centro dei tre movimenti c’è il dolore del distacco, della separazione madre-figlio, un senso di perdita straziante e apparentemente senza senso, col quale ci si confronta, cercando faticosamente di venirne a capo. Gorecki si è affidato alla tradizione, utilizzando parole già esistenti per esprimere il dramma che voleva raccontare: la prima sezione riporta una preghiera polacca del XV secolo, dove la Madonna piange suo Figlio in croce; la seconda utilizza un'iscrizione lasciata sui muri di una cella della Gestapo di Zakopane da una ragazza diciottenne che successivamente sarebbe finita ad Auschwitz. E qui è la voce della figlia che grida tutto il dolore dell’abbandono (“No madre, non piangere, Sempre vergine Maria, aiutami sempre, Ave Maria”) Il terzo movimento, infine, riporta una canzone popolare di inizio Novecento, dove una madre piange il proprio figlio scomparso, probabilmente morto nella rivolta che interessò la regione di Opole. 

Sono sentimenti che Gorecki conosce bene: da piccolo, mentre giocava in cortile, si slogò un'anca, procurandosi un'infiammazione che, diagnosticata in ritardo e curata male, lo portò a subire quattro operazioni nei venti mesi successivi e lo costrinse a dover gestire diversi problemi di salute per tutta la sua vita. “Ho parlato spesso con la morte” ebbe modo di dichiarare ed ascoltando quella che è senza dubbio la sua opera più famosa si capisce che non si trattava esattamente di una battuta. 

C’è il dolore, in quest'opera, ma non la disperazione: non bisogna dimenticare che Gorecki è polacco e che i polacchi hanno dovuto fare i conti per secoli con una storia travagliata, fatta di guerre e occupazioni militari, che li ha portati a sparire due volte dalle carte geografiche e a subire per cinquant’anni un'oppressiva dittatura comunista col patrocinio di Mosca. 

In tutto questo, la fede cattolica è stata compagna inseparabile e sostegno sicuro, a partire dal santuario di Czestochowa, la cui icona della Madonna nera è venerata dall’inizio del Medioevo, fino ad arrivare alla clamorosa elezione al soglio papale di Karol Wojtyla. Col papa polacco Gorecki ebbe sempre un legame particolare, sin da quando, ancora misconosciuto compositore noto solo in patria, compose il “Beatus Vir” per celebrarne il primo viaggio apostolico in Polonia. Successivamente, per Giovanni Paolo II scrisse il “Totus tuus” (1987) e le musiche per la messa funebre, nel marzo del 2005. 

Al di là di un'etichetta di “minimalismo sacro” che probabilmente gli sta stretta (perché nel suo catalogo ci sono lavori stilisticamente molto diversi, a partire dai quartetti d’archi composti per il Kronos Quartet), è evidente che questo suo affidarsi a Dio, pur nella tragicità delle circostanze, ha donato alla sua Terza sinfonia un respiro ed un'apertura che a tratti sembra di poter chiamare pace. 

E Beth Gibbons, come è entrata in gioco in tutto questo? Lo ha scritto sempre Claudio Todesco ma lo possiamo trovare anche all'interno del booklet del cd appena uscito: nel 2013 stava suonando con i Portishead (a proposito, chissà se li rivedremo ancora prima o poi) al Sacrum Profanum Festival di Cracovia, nel suggestivo scenario post-industriale di Nowa Huta. Qui fu avvicinata dal direttore artistico del Festival Filip Berkowicz, il quale le suggerì di provare a cimentarsi con la sinfonia di Gorecki. Il motivo? Se gliel’ha spiegato, noi non lo sappiamo. 

In ogni caso l'idea dev'essere piaciuta perché per più di un anno lei, che ovviamente non conosceva una parola di polacco, lei che è un contralto e quindi ben lontana dal range vocale di soprano per cui la partitura è stata scritta, si è allenata con due vocal coach in modo da poter rendere al meglio un'opera solo apparentemente semplice e lineare. 

Il risultato lo potete giudicare da voi. Il lavoro che oggi abbiamo tutti tra le mani risale al 2014 ed è la registrazione di quella (finora) unica esecuzione, il 29 novembre di quell'anno, nel prestigioso Teatr Wielki Polish National Opera di Varsavia, con la partecipazione dell'orchestra della Radio nazionale polacca, la stessa che si è cimentata con l'opera di Gorecki più volte in passato, consegnando ai posteri indimenticabili incisioni. A dirigere il tutto, l'eccezionale figura di Krzysztof Penderecki, anch'egli polacco, anch'egli compositore importante, tra i grandi nomi del XX secolo. 

Anche la cornice all'interno della quale si è svolto l'evento è stata significativa: la prima parte della serata, infatti, ha visto l'esecuzione di “Polymorphia”, dello stesso Penderecki, dei “48 Responses to Polymorphia” di Johnny Greenwood, della “Funeral Music” di Witold Lutoslawski e, dulcis in fundo, della prima assoluta di “Reponse Lutoslawski” di Bryce Dessner. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla possibilità di convivenza tra la musica classica contemporanea e i grandi esponenti della storia del rock, direi che i nomi coinvolti lo dovrebbero smentire categoricamente. 

È un peccato non avere a disposizione il resoconto completo della serata, ma diciamo che la pubblicazione della seconda parte è sufficiente per renderci contenti. 

La Terza sinfonia è condotta da Penderecki con un tempo leggermente più sostenuto dell’originale. È spiazzante all'inizio ma nel prosieguo si capisce che è stata una scelta positiva, che non rovina affatto l'ampio distendersi del primo movimento, fatto sostanzialmente di un solo tema principale, suonato da un'orchestra che, a partire dai bassi, si riempie a poco a poco fino ad arrivare ad un'esplosione d'archi, preludio all'entrata in scena della voce, che è preparata da alcuni accordi di pianoforte e arpa che appaiono come sospesi. 

E come se la cava Beth Gibbons? Direi decisamente bene. Ha bisogno del microfono, probabilmente per dare più potenza alla sua voce e nelle note più alte si avverte la fatica di essersi spinta al limite. È una performance che non ha ovviamente la naturalezza di quella della Woytowicz ma che è, se possibile, ancora più carica di forza drammatica. 

La Gibbons sa cosa sta cantando ed è un tutt’uno con quelle parole scritte decenni e anche secoli fa, come se le appartenessero nel modo più radicale. È un grido, il suo, che rispecchia alla perfezione il modo in cui l'aveva concepito Gorecki: non lo strazio di una disperazione senza nome (quella che, per dire, si può sentire nella celebre composizione dello stesso Penderecki “Threnody for the Victims of Hiroshima, a mio parere emotivamente insostenibile) ma piuttosto un “Cry”, come lo intendono gli americani, che è insieme pianto e grido. 

Solo così si può rendere una sinfonia che, nella sua costruzione, assomiglia quasi ad una cattedrale gotica: c'è la dimensione verticale data dall’andamento largo, contemplativo della partitura orchestrale e quella verticale, con l'ascesa tonale e i picchi della voce, sollecitazioni fortissime che l'ex Portishead rende benissimo, magari con minore perizia tecnica ma senza dubbio con enorme intensità. 

È un’esecuzione che sarebbe meglio vedere in dvd: innanzitutto per godere dei suggestivi Visual di John Minton, diversi per ogni movimento (l’oscurità di una cella buia per il primo, il chiarore di un'alba per il secondo, l'ampia distesa azzurra del cielo o del mare per l'ultimo) ma anche per immergersi totalmente in un'opera che è senza dubbio fruibile, lontana dagli arditi sperimentalismi di una certa classica contemporanea ma non per questo immediata ed orecchiabile. 

L'incedere lento della partitura va infatti di pari passo con la sofferenza espressa dalla voce, il ripetersi inesorabile dei temi portanti costituisce un mare vasto, calmo ma dove non è sempre facile orientarsi. 

La bellezza, però, è oggettiva, innegabile. E si arriva alla fine svuotati, esausti ma anche terribilmente grati. Tanto che l'applauso scrosciante che arriva alla fine è preceduto da alcuni secondi di silenzio, come se fosse quella l’unica reazione possibile dopo essere stati messi di fronte a tanta vita, a tanto dolore, a tanta verità. 

C’è una poesia di Jan Twardowski, guarda caso polacco anche lui, che esprime perfettamente le sensazioni che si hanno stando di fronte a quest'opera di Gorecki. È stata scritta più di un secolo prima ma lo intercetta in pieno: “Quello che è falso, difficile, mal riuscito, la gioia mezza idiota, il dolore cretino, i rimorsi come piante perenni, fiori semprevivi, la ragione incapace di impedire gli addii, l'amore che non è mai privo di disperazione, il cuore sempre al buio malgrado luminose emozioni, la consolazione solo perché allontana la verità, lo scarabeo che non ci ha unito pur volandoci attorno, la neve tanto emozionata che capiva ben poco, quell'unica formica fuggita alla fine dal formicaio, il tuo sorriso che finché eri in vita non mi spettava. È diventata strada quello ch'era sofferenza”. 

Beth Gibbons e Penderecki hanno fatto rivivere questa sinfonia delle canzoni dolorose e ci hanno fatto vedere che la sofferenza può essere strada; quindi anche possibile nuovo inizio. Ed è proprio per questo che vale la pena dir loro grazie.