"C'è così tanta musica là fuori sull'inferno, sul diavolo e sull'occulto che ho pensato che fosse ora che qualcuno ne scrivesse una sulla battaglia tra il bene e il male! Non puoi cantare del diavolo senza cantare del bravo ragazzo, e la canzone sostanzialmente dice ‘fai la tua scelta’. Dobbiamo tutti prendere una decisione: siamo cattivi o siamo buoni? La canzone parla di quella lotta".
(Biff Byford)
Il titolo del nuovo disco dei Saxon si ispira a una colorita imprecazione del padre del cantante Biff Byford, ma riesce a suonare insieme epico, oscuro e minaccioso anche grazie alla copertina ispiratissima disegnata da Péter Sallai (già mastermind della black metal band ungherese dei Bornholm) e che regala tante sicurezze e qualche annunciata novità.
L’addio del “pensionato” chitarrista Paul Quinn (membro della band fin dalla sua creazione) avrebbe potuto minare le certezze della banda capitanata dall’inossidabile Biff, ma così non è stato, dato che il “rimpiazzo” è nientemeno che Brian Tatler, mente e ascia della cult band britannica Diamond Head, che va a formare una coppia molto interessante, insieme al collaudato Doug Scarrat.
Quinn in realtà è ancora presente come compositore e arricchisce il risultato finale del nuovo disco, grazie a un paio di comparsate assai riuscite, per un Hell, Fire and Damnation che ripone le sue consuete certezze in una produzione “priestiana”, gentile concessione del solito Andy Sneap, in un disco molto curato in tutti i suoi aspetti, a partire da “The Prophecy”, intro apocalittica, guidata dalla imperiosa voce baritonale dell’esperto attore britannico Brian Blessed.
A seguire, la title track ha il merito di mostrare il meglio della gioielleria metallica made in Saxon, dove il ritmo ficcante si sfoga in un ritornello altisonante e magnetico, in un rituale malefico che non può deludere gli amanti del genere.
La band sembra voler giocare sulle atmosfere: il basso roboante e circolare di Nibbs Carter apre una “Madame Guillotine” che conferma l’amore della band per tematiche storiche appassionanti e regala un nuovo refrain, affabile ma di grande effetto, amplificato da un break strumentale centrale che rallenta il ritmo e ci mostra la vera arma segreta del disco: chitarre dorate e sfolgoranti, sia in fase ritmica che, soprattutto, solista, deliziose sia dal punto di vista tecnico che da quello di affiatamento e pathos.
Non c’è di meglio oggi nel mondo del metal classico, e quindi onori al duo Scarrat/Tatler, che riescono a farci dimenticare un paio di episodi mediocri e ci spingono a parlare invece del fast metal turbinoso di “Fire and Steel”, incastonato tra i Manowar di “Wheels Of Fire” e gli adorati Motorhead.
Misteriose apparizioni dallo spazio fanno capolino in “There’s Something In Roswell”, dove sembra di sentire gli AC/DC che decidono di suonare heavy metal, mentre “Kubla Khan And The Merchant Of Venice” fa felici anche gli amanti della storia italiana e aumenta le vibrazioni sonore portandole al confine con il power metal più epico, ma sempre melodico e cantabile.
La battaglia di Hastings è il tema portante del mid tempo arrembante di “1066”, e fa coppia con l’heavy rock drammatico di “Witches Of Salem”, ben costruito ma che pecca leggermente in un coro poco memorabile.
Il grande finale arriva con i cinque minuti di “Super Charger”, brano impeccabile che riesce a unire il classic metal degli Eighties con l’urgente modernità del 2024, dove tutto funziona al cento per cento e mostra ancora una volta una band che non si arrende e riesce a produrre un altro disco di innegabile qualità, intensità e forza. Un buon lavoro con due chitarristi che fanno la differenza.
Il 2024 promette inoltre di essere un grande anno per i Saxon, con il tour europeo insieme a Judas Priest e Uriah Heep che inizierà nel Regno Unito a marzo e arriverà anche in Italia:
“Avere questi spettacoli con Judas Priest e Uriah Heep, significava che aveva senso spingere e realizzare l’album più velocemente, quindi, siamo andati avanti in fretta e l’abbiamo tirato fuori dalla borsa. È stato complicato, ma penso che sia giusto dire che abbiamo fatto un buon lavoro". (Biff Byford)