Sean Bowie è un personaggio in eterno mutamento tanto che, se volessimo scrivere una cosa banale, potremmo suggerire che sia in qualche modo una responsabilità del cognome che porta. Al di là di questo (l’ho scritto solo per riempire spazio, lo ammetto) l’ultimo cambiamento di immagine e identità è avvenuto indubbiamente durante la leg estiva di “Safe in the Hands Love”, il disco precedente, quello che lo ha definitivamente consacrato come un artista di livello superiore. In quell’occasione ha infatti stravolto quei pezzi, che erano essenzialmente montati in studio, frutto di un lavoro avanguardistico e parecchio visionario di elementi assemblati uno sull’altro, trasformandoli in brani per certi versi più canonici e intelligibili, dando molto più spazio ai suoi musicisti e mettendo maggiormente in mostra le sue qualità di frontman che nella parte invernale, quando si esibiva in perfetta solitudine, facendo partire lui stesso le basi, erano rimaste un po’ in ombra o comunque risultavano un po’ fuori contesto.
Avendolo visto in entrambe le versioni, non ho dubbi: il primo spettacolo era la celebrazione di un disco straordinario, tra i migliori del 2018 senza ombra di dubbio ma che portato in scena in quel modo aveva molto poco senso; il secondo, viceversa, ha creato un qualcosa di totalmente nuovo ed è stato probabilmente il punto di partenza per il nuovo “Heaven To a Tortured Mind”, che si muove senza alcun imbarazzo nell’universo del Soul e della Black Music in generale.
Prodotto da Justin Raisen (Charli XCX, Ariel Pink, JOJI tra gli altri) e pubblicato, come il precedente, sotto l’egida della leggendaria Warp, questo terzo lavoro dell’artista di Knoxville, Tennessee, si configura probabilmente come il più accessibile della sua carriera, mischiando l’elemento Glam che lo contraddistingue visivamente con l’approccio alla scrittura tipico di Prince e D’Angelo. Un disco che sembra nato live e che parrebbe destinato a prendere ancora più vita nel momento in cui verrà portato sul palco ma che, paradossalmente, si mostra molto lontano da una certa resa Pop associata normalmente all’uomo scelto per stare dietro alla consolle; piuttosto, l’impronta generale del sound appare scura e impastata, facendo così in modo che non si perda quella cifra visionaria e claustrofobia tipica dei due precedenti lavori.
Anche la scrittura, che pure a tratti si è fatta più lineare, non è comunque poi così tanto diretta: l’inizio ritmato di “Gospel For a New Century”, con i fiati che introducono le solite linee vocali sbilenche e vagamente allucinate ma che poi tengono in piedi tutto il pezzo, offrendo un pregevole lavoro di contrappunto è un buon modo per cominciare ma è un pezzo che richiede tempo. Oppure l’attacco in medias res della successiva “Medicine Burn”, che rafforza l’impressione il nostro assembli i pezzi in maniera casuale; qui si parte con una base jazzata un po’ à la King Krule, con un crescendo di chitarre filtrate che rendono via via più impetuosa la ritmica.
“Identity Trade” ha un sax che scorrazza libero nelle strofe, come se si trattasse di Free Jazz, per un episodio che si interrompe di colpo, per lasciare spazio a “Kerosene!”. Il quale, già uscito qualche settimana fa come singolo, è inizialmente non poco spiazzante e rappresenta il vero spirito Pop del disco. C’è un duetto con Diana Gordon che nella seconda parte va via da sola, con una prova decisamente maiuscola e un finale tutto basato sui controcanti e su un massiccio assolo di chitarra. Un pezzo importante, che tocca tutta la tradizione Soul e che, perdonatemi l’ennesima banalità, potrebbe essere tranquillamente uscita da una qualunque pagina del catalogo di Prince.
Ancora tanta Black Music in “Hasdallen Lights”, con i Synth molto più presenti, mentre sulla stessa falsariga è anche l’altro singolo “Romanticist”, che si avvale della collaborazione di Julia Cumming e di Kelsey Lu e che ha una seconda parte intitolata “Dream Palette” dove, mantenendo sempre alto il ritmo, compare una maggiore dose di elettronica.
“Superstars” è invece l’altra potenziale hit dell’album, anche questa con una chitarra che ricorda molto Prince.
Per non farsi mancare nulla, “Folie Imposée” ci riporta vagamente alle atmosfere di “Serpent Music”, visto che è un episodio dove il lavoro di assemblaggio in studio ha avuto senza dubbio un ruolo maggiore, una voce effettata che si staglia su un groviglio di suoni, una chitarra satura che tiene il tempo in sottofondo e un generale feeling da maelstrom urticante.
Il finale, forse la parte meno efficace dell’intero lavoro, declina l’ispirazione in chiave Post Punk, andando ad evocare quei Throbbing Gristle che sono stati una delle sue primissime fonti di ispirazione. Lo si vede soprattutto negli echi sperimentali di “Asteroid Blues” mentre la chiusura di “A Greater Love”, scritta insieme a Hirakish, è ancora una volta canonica, con tappeti di Synth, chitarra solista a fungere da controcanto e la voce che cita Marvin Gaye, con un duetto finale in compagnia di Clara La San.
Meno coraggioso di “Safe in the Hands of Love”, “Heaven To a Tortured Mind”, nonostante alcuni punti meno riusciti, è un’altra grande conferma per Yves Tumor, oltre che un altro tassello prezioso per capire in che direzione si stia muovendo la musica contemporanea.