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REVIEWSLE RECENSIONI
05/12/2024
Trash Boat
Heaven Can Wait
I Trash Boat realizzano quello che ad oggi si può definire il migliore album della loro carriera con Heaven Can Wait, un disco finalmente a fuoco ma che al contempo comunica con forza il caos, gli enigmi e la tortuosa mutevolezza di cui sono capaci questi ragazzi di St Albans.

I just wanna change the world

But I don't know where to begin

I've already changed myself

A different me every weekend

(Trash Boat, "Delusions Of Grandeur", Heaven Can Wait)

 

Voglio solo cambiare il mondo ma non so da dove cominciare. Ho già cambiato me stesso, un me diverso ogni fine settimana”. Con una dichiarazione di intenti del genere non si può non iniziare a simpatizzare da subito con i Trash Boat, quintetto di St Albans nell’inglesissimo Hertfordshire, una delle contee che circondano Londra.

Nati come band più marcatamente pop punk / hardcore melodico nel 2014 (come testimonia anche la firma per la Hopeless Records, una delle etichette di punta per il genere), dopo i primi due album (Nothing I Write You Can Change What You've Been Through nel 2016 e Crown Shyness nel 2018) hanno incluso sempre più influenze post hardcore e alternative metal al loro suono, arrivando all’interessante ma ancora un po' caotico Don't You Feel Amazing? del 2021, che presentava una maggiore carica di vibes seducenti, perfette in alcune canzoni ma confusive e di alterna fortuna nel contesto dell’LP.

Una storia discografica che parla di una band dotata di grande talento, capace di singoli di primo livello, belle intuizioni sonore e un’ottima presenza scenica in sede live, ma forse ancora un po' debole nella dimensione album.

Mancava solo un passo nella giusta direzione ed è stato fatto con Heaven Can Wait, il quale abbraccia con ancora più cognizione di causa la caotica volontà della band e del suo leader di essere tutto e di poter fare tutto, scevri da stili e direzioni artistiche predeterminate. Forse proprio per questo, o anche grazie a quella che è stata un’autoproduzione collettiva, i Trash Boat hanno questa volta confezionato un album decisamente convincente nella sua interezza. Dopo le esperienze degli ultimi dischi, dove si sono ritrovati preda del costante tentativo di spiegare ogni volta a un produttore esterno ciò che stavano cercando di ottenere, i ragazzi hanno deciso di scommettere tutto su se stessi, prendendosi la responsabilità di produrre e registrare con la propria attrezzatura ciò che avevano in mente e ritrovandosi quindi molto più a proprio agio tra loro, con il tempo a disposizione e con l’obiettivo che volevano raggiungere.

Heaven Can Wait, infatti, non solo presenta - come sempre - dei singoli di notevole impatto e resa, ma porta nella dinamica di un long playing il giusto equilibrio tra pezzi veloci, pezzi lenti e mid-tempo, ibridando ulteriormente il loro punk-hardcore / post-hardcore con il nu-metal e l’alternative rock e consolidando il suono, qui decisamente più corposo e ficcante.

 

Heaven Can Wait si presenta come un disco forse un po' derivativo a livello sonoro, dove le influenze spesso sono molto evidenti (vedi i Deftones nella doppietta “Watching Heaven...” e “...Burn”, dove l’impasto vocale ricorda fortemente Chino Moreno, oppure i migliori stilemi del nu metal delle bellissime “Be Someone” e “filthy/RIGHTEOUS”), ma è un album in cui i Trash Boat si dimostrano capaci di integrare bene le varie anime del gruppo, portando all’interno di un unico disco sia la storia passata, sia quella presente, sia probabilmente i semi di quella futura.

I ragazzi amano ciò che fanno e lo perseguono con fervore, realizzando un lavoro introspettivo, capace di domande profonde e di comunicare ansia e sconforto, spesso associato anche alla giusta rabbia verso un mondo ingiusto, menefreghista e bloccato in una spirale negativa. Al tempo stesso, però, hanno confezionato un album melodico ed energico, che ha saputo trovare nelle collaborazioni con artisti esterni un quid in più per evolversi e sperimentarsi anche in sfumature che poi restano in qualche modo parte di loro al di là del tempo dei singoli brani in cui sono presenti i featuring.

Un’incandescente nuvola di riff, catchyness e violenza nu-metal caratterizzano quelle che sono due delle tracce più riuscite del disco: “Be Someone”, con la collaborazione nientemeno che di Eric Vanlerberghe dei talentuosi I Prevail, e “filthy/RIGHTEOUS”, con la partecipazione di Kenta Koie dei cibernetici artisti del metalcore Crossfaith. Una bella spinta che si può ritrovare a livello sonoro anche nella seconda parte del disco con la notevole e potentissima “Liar Liar”, dove Tobi Duncan e soci “menano come fabbri” e scartavetrano i muri esprimendo il profondo sgomento nei confronti dei media moderni e nei tentativi di viralità a buon mercato, dove sempre più persone cercano disperatamente di essere rilevanti e controverse per ottenere visualizzazioni.

 

“Are You Ready Now?”, “Break You” e “Delusion of Grandeur” riprendono quel suono a cavallo tra alternative rock, alternative metal, hardcore melodico e post hardcore che avevano cercato di sviluppare con il precedente Don't You Feel Amazing?, ma questa volta con risultati più corposi, pieni e coinvolgenti, dove gli scream vocali meritano l’ascolto, le controparti melodiche sono a servizio della dinamica della canzone non appiattendo il risultato complessivo e gli arrangiamenti sono semplici e ben studiati, ma con qualche bella soluzione creativa e non scontata, capace di esplorare tessiture non banali.

Di questo trittico “Break You” è la più personale, poiché parla del periodo più significativo di paura e ansia che il frontman abbia mai avuto nella sua vita: di punto in bianco, senza nessuna ragione logica, si è ritrovato ridotto a una costante sensazione di paura indiscriminata, non di qualcosa in particolare, solo di paura, con l’impressione che si sarebbe continuato a sentire allo stesso modo o peggio per sempre. Non riusciva nemmeno ad alzarsi dal letto o a uscire di casa, per non parlare dei tour, dei viaggi, della socializzazione, del lavoro, e tutto questo senza riuscire a comprenderne il motivo. Fortunatamente è stata una sensazione che è durata “solo” sei mesi e ne è uscito con nuove consapevolezze, sia su di sé sia rispetto a chi soffre in maniera costante e continuativa di questo genere di effetti debilitanti della malattia mentale.

Tobi Duncan anzitutto voleva evitare di diventare un “turista del trauma”, di quelli che pensano: “Oh, ho avuto sei mesi davvero brutti e ora so tutto quello che c'è da sapere su come si sentono queste persone”, quindi ha confezionato una canzone calibrata, rendendo a livello sonoro il vortice di ansia e terrore che sembrava rutilargli intorno in quel periodo, e tenendo ben presente la consapevolezza che ha provato solo per un tempo infinitesimo ciò che per altri è molto più serio, strutturale e debilitante, e che può ringraziare quanto accaduto per averlo reso più sensibile sia verso se stesso sia verso situazioni che prima avrebbe recepito con una “leggerezza” diversa.

 

“The Drip” si colloca anch’essa nell’alveo di suoni simili a quelli che possiamo considerare “propri” degli ultimi Trash Boat, ma si presenta come un brano molto innovativo, che utilizza il megafono come mezzo per alternare dichiarazioni di stampo politico a una sincera polemica su quei gruppi che tentano di parlare di questioni socio-politiche senza avere l’adeguata conoscenza per poterne parlare, esprimendo così solo una sorta di vuota ed egocentrica ansia su qualcosa che non solo non possono cambiare, ma probabilmente capiscono anche solo parzialmente.

“Better Than Yesterday”, dall’altra parte, è un intermezzo mid-tempo che si colloca a metà del disco e unisce piccole sfuriate a dei toni più introspettivi; riprende alcuni suoni tipici dei primi album ed è utile a prendere un respiro tra una carica di artiglieria adrenalinica e l’altra, ma non risulta fondamentale all'economia complessiva. “Lazy”, in chiusura, è un pezzo morbido e più lento, forse anche troppo, ma ha il compito di chiudere il disco abbassando i livelli di frenesia.

 

Nel complesso Heaven Can Wait, anche sulla media distanza, ha il grande pregio di essere un album vario, vivido, dinamico e che non annoia: è versatile, ad ogni ascolto regala qualche sfumatura magari poco considerata nei precedenti e concede di volta in volta spazio allo sfogo, al canto a squarciagola di qualche passaggio, o all’inarrestabile tamburellare di piedi o testa in preda alla compartecipazione di qualche intreccio di chitarra e batteria.

I Trash Boat hanno abbracciato felici tutta la loro mutevolezza, rigettando la necessità di appartenere ad un genere solo ma divertendosi a dosare le loro possibilità, gusti e curiosità, nell’alveo di quello che è comunque un suono riconducibile al loro mondo d’appartenenza. Divertimento, sincerità e collaborazione, queste forse le parole chiave del quintetto, che, imprevedibile ed emozionante, ricorda con semplicità ed entusiasmo che il paradiso è qualsiasi cosa voi facciate di esso. A volte pensare troppo al fatto che le cose potrebbero essere migliori altrove impedisce di apprezzare ciò che si è costruito o si può realizzare nel proprio presente, e goderselo come merita è la cosa migliore che si può fare. Quindi forse sì, il paradiso può attendere.