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REVIEWSLE RECENSIONI
07/05/2020
The Used
Heartwork
Vario, fresco, emozionale e moderno. Un disco che si ispira alla storia del gruppo ma rinnovandosi con tinte contemporanee. Un “lavoro del cuore” che rende Heartwork uno dei migliori album dei The Used da molti anni a questa parte. Ben fatto ragazzi!

Forse ci voleva il ritorno dello storico produttore dei loro album (nonché cantante e chitarrista dei Goldfinger) John Feldmann per rinverdire le sorti dei The Used. Rispetto alle sperimentazioni più patinate del precedente The Canyon (2017), infatti, i quattro ragazzi dello Utah tornano a prendere ispirazione dai loro primi tre album - la sincerità emotiva di The Used (2002) e In Love and Death (2004) e l’attitudine più punk di Lies for the Liars (2007) - aggiornandoli con tutte le suggestioni prese dai suoni più contemporanei e creando un mix ricco di influenze e denso di tracce.

Il processo di registrazione è stato relativamente rapido e, tra Giugno e Novembre 2019, ha portato i The Used a registrare 27 canzoni. 16 di queste compongono Heartwork, mentre le rimanenti dovrebbero andare a comporre un secondo album, di cui si rumoreggia l’uscita a fine 2020.

16 tracce sembrano molte? Solo in apparenza. I 46 minuti del disco fluiscono leggeri e non risultano mai monotoni, anzi. L’inizio non potrebbe essere migliore, poiché vede mettere in campo subito due canzoni bomba, che portano l’adrenalina su livelli ottimali: i due stupendi singoli “Paradise Lost, a poem by John Milton” e “Blow Me”, realizzata con il contributo del sempre combattivo Jason Aalon Butler dei Fever 333.

A seguire si rallenta lievemente i bpm con l’ottima “Big, Wanna Be”, che conquista con il suo flow insinuante. “Bloody Nose” la segue a ruota, apprezzabile anche per il lavoro di batteria che in diversi punti emerge seguendo dei pattern ritmici diversi da quelli delle linee vocali e di chitarra.

La prosecuzione, arrivati alla quinta traccia, inizia a diventare ancora più interessante. “Wow, I Hate This Song” ad un primo impatto è quasi surreale: inizia come un mid-tempo ma arriva a proporre passaggi tra melodia e scream tra loro quasi contrapposti. Tempo di qualche ascolto, però, e si trasforma in una delle tracce più sperimentali e apprezzabili. Non abbiamo a che fare con dei ragazzini di primo pelo: questi hanno imparato a giocare per davvero, e non hanno più paura di osare.

I ritmi rallentano sul serio per la breve “My Cocoon”, un lento di un minuto che non sarebbe degno di nota se non per la sua funzione: portare alla bellissima “Cathedral Bell”. Una traccia elettronica e con suoni decisamente più subdoli e danzerecci. Quasi non si direbbe una canzone dei The Used, ma riesce ad essere perfettamente credibile, fondendosi bene con il groove à la Muse e i cambi di tempo e tono della successiva “1984 (infinite jest)”.

Il regno dell’emo fa la parte del leone in tutta la seconda parte del disco, accelerando e rallentando a seconda dell’andamento delle strofe, giocando talvolta con il funky e regalandoci tre ulteriori collaborazioni di livello, quelle con alcuni degli amici di John Feldmann: Mark Hoppus (Blink-182, Simple Creatures) su “The Lighthouse”, Travis Barker (Blink-182) su “Obvious Blasé” e Caleb Shomo (Beartooth) su “The Lottery”, che riesce incredibilmente a fondere toni arabeggianti e scream.

Le migliori canzoni della seconda metà, in ogni caso, vedono l’assegnazione della medaglia d’oro a “Clean Cut Heals”, su cui vi sfido a non ballare. Altre note di merito vanno a “Gravity’s Rainbow”, allo spoken word su “Heartwork” e al potente drum’n’bass dai toni elettronici e punkeggianti di “Darkness Bleeds, FOTF”. Bellissima la chiusa con la poetica “To Feel Something”.

Se solo un paio di anni fa mi avessero detto che avrei apprezzato di nuovo un album dei The Used sarei stata scettica e avrei borbottato qualcosa sul fatto che non seguo l’emo e non sono più gli stessi di Lies For The Liars. Ebbene, non avrei potuto sbagliarmi di più. Heartwork è da giorni in rotazione pesante sul mio stereo, l’ho ascoltato per un numero di ore e per una quantità di volte quasi indicibile e non sto accennando a smettere. Non sarà di certo un album perfetto, ma ha delle tracce che non ti stufi di ascoltare e che si adattano ai più diversi umori della giornata. Aggiungiamoci il fatto che l’artwork, con quella punta di dark tipico dell’emo punk, è giocato sulla realizzazione di meravigliosi tarocchi a tema (da ammirare nello slide show del video di “Gravity’s Rainbow”) e il punto fascino è assegnato. Bel lavoro ragazzi, continuate così!


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