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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
24/12/2017
The Blue Nile
Hats
La voce triste e arresa di Paul Buchanan arricchisce di poetica dandy sette canzoni senza tempo, cesellate con artigianale delicatezza su partiture di tastiere distanti ed eteree, mentre basso e batteria elettronica talvolta pulsano sottotraccia, più spesso si insinuano liquide nella diafana filigrana delle melodie

C’è un implicito elogio alla lentezza che sottende alla poetica dei Blue Nile. I loro dischi, infatti, sono stati centellinati nel tempo, rari e suggestivi come un ricordo obliato che inaspettatamente torna a sorprenderci o come l’apparizione di misteriose comete che, talvolta, vagabondano al limitare dell’atmosfera terrestre. Una media di un album ogni sette anni, più o meno, è il ritmo di una produzione che definire dilatata è un eufemismo. E' questo il segreto per mantenere alto il livello di ispirazione? Sembrerebbe proprio di si, considerando la straordinaria qualità di ognuno dei quattro dischi pubblicati dai tre musicisti scozzesi fino a oggi (l'ultimo, High, è del 2004, e la lentezza, a questo punto, potrebbe essersi trasformata in stasi definitiva, visto che Paul Buchanan, leader del gruppo, ha, nel frattempo, dato vita a una carriera in solitaria).

Hats, rilasciato nell'ottobre del 1989, è probabilmente il capolavoro della band scozzese, l'apice di una musica sublime e raffinata, che si veste di spiritualità, silenzi malinconici e romantiche visioni notturne, mescendo con nobili gesti il sapore torbato del whisky delle Highlands, il passo meditabondo del gentiluomo di campagna e l’eco distante della metropoli che, lontano da qui, si nutre della frenetica cacofonia di luci al neon e clacson.

La voce triste e arresa di Paul Buchanan arricchisce di poetica dandy sette canzoni senza tempo, cesellate con artigianale delicatezza su partiture di tastiere distanti ed eteree, mentre basso e batteria elettronica talvolta pulsano sottotraccia, più spesso si insinuano liquide nella diafana filigrana delle melodie, scandendo con morbidezza il ritmo delle emozioni.

Le canzoni di Hats, ricche di echi e di riverberi, suonano calde e avvolgenti, galleggiano a mezz'aria, fluttuano e ci sussurrano all’orecchio, consapevoli di possedere una resa sonora a dir poco stupefacente, che non necessita di artifici e volumi alti.

La languidamente notturna, Over The Hillside apre il disco con il ritmo lento di una drum machine, accordi di synth in minore e un arpeggio discendente di chitarra elettrica. La trama leggera è ricamata intorno alla voce serica di Buchanan, carezzevole quando sfiora il microfono e i nostri cuori, spietata nell’alimentare il pathos di un crescendo appena intuito, costruito su arrangiamenti tanto essenziali quanto decisivi.

Impossibile, poi, non commuoversi alle lacrime quando parte l'arpeggio di chitarra di Let's Go Out Tonight, preghiera per l'ultimo dei romantici, se ancora il romanticismo avesse asilo su questa terra, e colonna sonora perfetta per una sconfitta o un dolore straziante, declinazione introspettiva e ripetuta del verbo immalinconire. Headlights On The Parade, propaggine terminale del synth pop anni ’80, cerca invece più apertamente la strada della ritmica, ma si sviluppa con la discrezione di un ricordo nostalgico, un breve flash back di giorni felici, colti nell’attimo di un barbaglio di sole che sfiora l’erba madida di brina. Ombre e luci, il respiro sospeso ed esitante, fermo sul contorno sgranato di quella crepa che potrebbe, con una sola nota ancora, sgretolarvi il cuore. La catastrofe emotiva, però, sopraggiunge poco dopo, con l’esiziale voracità della malinconia che si insinua nelle pieghe di From A Late Night Train e che trasforma il senso della perdita in teorema, rendendolo eterno, definitivo come le parole salate che accompagnano un pianto di disperata rassegnazione. The Downtown Lights, Seven A.M. e Saturday Night completano una scaletta breve (le canzoni sono solo sette) ma praticamente perfetta sotto ogni aspetto.

Hats è un disco, però, che non si può pensare, né cercare di capire. Almeno non subito.  Ci sarà un momento in cui l'ascoltatore comprenderà anche con la testa che questo album è un capolavoro, perché in grado di sedurre l'anima con la chimica delle assenze e delle sottrazioni, e perché, come solo i grandi narratori sanno fare, Buchanan racconta la tensione e il dramma usando il linguaggio del soliloquio sommesso, evitando eccessi, teatralità, enfasi. Tuttavia, fino a quel momento, Hats conoscerà solo una percezione emotiva, la fisicità dei palpiti, la dimensione sensuale del nostro evocare attraverso le note. Un intimismo tanto profondo, da pretendere che l'ascolto avvenga in perfetta solitudine: una sigaretta che brilla nel buio e un bicchiere di scotch, mentre fuori gli ammiccamenti sinuosi della notte o i primi accenni dell'alba che si fa bella leniscono il nostro tormento interiore. Come un dolore inconfessabile, Hats si insinuerà sottopelle, pretenderà il tributo di una lacrima ma saprà prendersi cura, per sempre, della nostra inquietudine.

 

Riedito nel 2012, la Collector's Edition di Hats, oltre alla scaletta originale rimasterizzata, contiene anche un bonus cd, con alternative takes di Seven A.M., Let's Go Out Tonight e Saturday Night, una versione live di Headlights On The Parade, oltre a The Wires Are Down, B Side del singolo The Downtown Lights, e un notevole inedito, questa la vera chicca per i fans, dal titolo Christmas.

A livello di suono, il disco è considerato uno tra i meglio registrati di sempre. Ascoltare per credere.