Settant’anni e non sentirli, istruzioni per l’uso. A voler riderci un po' sopra, questo potrebbe essere il sottotitolo di Hate For Sale, undicesimo album in studio dei Pretenders, band anglo americana capitanata dall’immarcescibile Chrissie Hynde. La cantante e frontwoman, prossima alla veneranda età citata poco sopra, è più in forma che mai e ne dà prova in questo nuovo full lenght, decisamente breve, ma assai incisivo e ispirato.
Che “la ragazza” di Akron fosse lontana dalla pensione e avesse ancora qualche asso nella manica lo avevamo capito già con l’ultimo Alone, un ritorno sulle scene dopo otto anni di iato, che aveva rinsaldato la fiducia dei fan sul futuro della band. Oggi, Hate For Sale conferma che i Pretenders, nonostante le defezioni (le scomparse premature di James Honeyman-Scott e Pete Farndon), i cambi di line up e il tempo trascorso, sono ancora una band che ha qualcosa da dire, grazie all’inossidabile stato di forma della Hynde (che canta con la grinta di una ragazzina) e al suo feeling con James Walbourne, chitarrista che ha affiancato la leader nella composizione di tutte le tracce in scaletta (gli altri sono lo storico batterista Martin Chambers e il bassista Nick Wilkinson).
Hate For Sale, è, dunque, un disco rapido e pulsante (dieci canzoni per trentuno minuti di durata) che coagula alla perfezione quel suono e quello stile che album superbi come Learning to Crawl (1984) hanno cristallizzato nel tempo: il consueto impianto rock che pesca dal punk e dalla new wave e si concede qualche strizzatina d’occhio al pop. La scelta del minutaggio breve è vincente e ben si adatta a queste dieci canzoni che viaggiano veloci su arrangiamenti scarni e puntano dritte e dirette il centro del bersaglio.
La partenza con la title track è la classica bordata punk rock nel classico stile Pretenders, che si ripete con efficacia nelle ottime Turf Accountant Daddy e I Didn’t Know When To Stop. Duri, puri e scalpitanti. Ci sono, però, anche momenti decisamente più leggeri e virati verso il pop: il libeccio chitarristico che soffia melodia sulla solare Maybe Love In NYC, le chitarre croccanti che spingono il singolo The Buzz verso territori radiofonici o You Can’t Hurt A Fool, lentone appassionato dall’anima soul e retrogusto sixties.
Se Junkie Walk è poco più di un riempitivo e risulta il momento più debole del disco, stupiscono, invece, positivamente il reggae di Lightning Man, sorretta da un sensualissima linea di basso, e la conclusiva e struggente Crying In Public, ballata per pianoforte e voce, avvolta in un sottile velo d’archi.
Hate For Sale è il “solito” disco dei Pretenders, laddove l’aggettivo “solito” è, come in questo caso, spesso sinonimo di qualità. Se nel nuovo millennio la Hynde aveva trasmesso qualche segnale, se non di stanchezza, quanto meno di prevedibile appagamento, gli ultimi due dischi sembrano aver riacceso il sacro fuoco di un tempo. Consigliato.