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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
06/02/2018
Devil’s Anvil
Hard Rock From The Middle East
Inacquistabile! Devil’s Anvil, bouzouki e la guerra dei sei giorni

Dio benedica gli anni ’60!

Vi ricordate? Quelli dell’amore universale; in cui le persone scendevano in strada dandosi la mano, e dandosi quella mano formavano grandi girotondi vorticosi con cui proclamavano la pace nel mondo e l’inizio di una nuova era di fraternità e propizie congiunture cosmiche.

Quelli del solo-unico-vero-rock-che-conta. Morrison, Hendrix, Lennon…

Bè, magari poi le cose non stanno proprio così…

Però all’epoca ti poteva pure capitare di trovare un bellimbusto arabo, con baffoni e scarpe a punta da sultano, fronteggiare una complessino beat nel giro del Village.

E il bello dei bassifondi del rock è che ti riservano sempre qualche sorpresa, qualche colpo di coda che ti costringe a rivedere continuamente la tua personale classifica di bizzarrie musicali. Pensi di averle sperimentate tutte con qualche Big Boy Pete, con i Randy Holden, con il prog giapponese, con la JPT Scare Band.

Poi spuntano fuori questi Devil’s Anvil.

Fioriti tra quei girotondi di pacificazione cosmica, vagabondavano per le stesse coffe house di Dave Van Ronk con nomi che oggi sarebbero sulla lista nera di qualsiasi controspionaggio: Kareem Issaq, Mike Mohel, Eliezer Adoram. Strumenti che sanno di deserto, bouzouki, oud, tamboura, timbri salmastri di Mediterraneo, costa meridionale: un happening scalzo alla prima moschea a destra.

Ma pur immerso fino al collo nello stordimento di quegli anni alla marijuana. Se fossero fioriti sulla costa ovest avrebbero strappato ai Caleidoscope lo scettro di Contaminatori Definitivi.

Ma a New York fecero la conoscenza di tale Felix Pappalardi, uno sdolcinato produttore/bassista che smerciava sogni colorati a tutto volume per le masse indistinte che avrebbero presto osannato Cream e addirittura Mountain. Ma era pure un personaggio con gli agganci giusti, tanto da riuscire ad accasare quell’accozzaglia di oriundi medio orientali con la Columbia.

Dio benedica gli anni ’60!

Così anche i nostri prodi clandestini mettono assieme 11 pezzi per un LP: Hard Rock From The Middle East. Piuttosto chiaro, no?

Roba da fare andare di traverso fior di biscottini al mitico George W. Bush. Ma ve lo immaginate l’americano medio a comperare un LP con in copertina un truce volto scuro avvolto in un turbante candido con tanto di deshdasheh a righe alla Ahmad al-Shuqayri?

Inacquistabile!

Quei pochi che lo acquistarono saranno forse rimasti interdetti. O forse no, tanto all’epoca qualunque orientaleggiamento di maniera era fin troppo ben accetto. Pappalardi, ahimè, riduce la carica arabica del gruppo ad un sound indecisissimo tra bordoni psichedelici e pruriti garage, tra unplugged folk da menestrelli della Grande Depressione, canzonette da juke-box, ed abbozzati tentativi di world music che più imperialista non si può.

Neocolonialismo rock, ma dagli Amerikani ci si poteva aspettare qualcosa di meglio? Electric Prunes del Sahara.

Per fortuna la totale follia di testi cantati in arabo, turco, greco e ovunque incomprensibili pur quando in inglese, rende divertente tutto quanto il disco. Con l’aggiunta di un paio di pezzi di bello spessore e trance assicurata: “Wala Dai”, “Besaha” e “Selim Alai”  in particolare.

Ma la ciliegina sulla torta fu che nel giorno esatto in cui il disco comparve nei negozi, il conflitto israelo-palestinese deragliò nella Guerra dei 6 giorni. Era il giugno 1967.

Chi si sarebbe azzardato, per le strade di New York, a girare con sottobraccio un LP 30x30 dominato da un sinistro simil-kamikaze e la parola “diavolo” a caratteri cubitali nel titolo?

Inacquistabile…

Allora, ma forse anche adesso.

PS: non ne sono assolutamente sicuro… ma metà del ’67 credo ci siano ottime possibilità che questo sia il disco in cui per la prima volta compare esplicitamente l’espressione “Hard Rock”…