L’insolita storia di Hannah Wicklund è quella di un’artista destinata a fare grandi cose. Originaria del South Carolina, ma ora di stanza a Nashville, Hannah inizia a suonare giovanissima, tanto che le cronache la raccontano band leader a soli 9 anni.
A 13, tiene il primo di una serie di live act privati innanzi al cantante degli Ac/Dc, Brian Johnson, e poi, a seguire, un numero di concerti impressionante (circa 2000) tra Europa e Stati Uniti, che la vedono condividere il palco con grandi artisti (da ultimo, The Marshall Tucker Band) e partecipare a importanti festival rock. Una gavetta impegnativa, che tuttavia le è valsa l’attenzione di pubblico e critica, a cui non è sfuggito il talento di questa agguerrita cantante, compositrice e chitarrista.
Doti ancor più evidenti se si pensa che la Wicklund ha da poco compiuto vent’anni ed ha già all’attivo tre dischi in studio, tra Ep e full lenght, pubblicati a partire dal 2013, quando di anni, se la matematica non è un’opinione, ne aveva solo 15. Questo omonimo album, il quarto di una carriera tanto precoce quanto eccitante, vede la presenza come produttore d’eccezione di Sadler Vaden, chitarrista alla corte di Jason Isbell & The 400 Unit, che con la giovane rocker ha scritto anche alcune delle canzoni in scaletta.
La Wicklund, non ne fa certo mistero, ha da sempre nel sangue quello che siamo soliti chiamare classic rock (fra gli artisti coverizzati in passato, tanto per citarne un paio, ci sono Neil Young e Tom Petty), una fonte di ispirazione che però insaporisce con spruzzate di blues e soul. Immediati, dunque, eventuali paragoni con colleghe più illustre quali Susanne Tedeschi, Samantha Fish, Layla Zoe o Beth Hart.
Tuttavia, Hannah Wicklund, nonostante la giovanissima età, ha uno stile già ben definito: una voce potente ma versatile e un’ottima tecnica chitarristica, che sfoggia con misura, senza sbrodolamenti inutili e senza sprecare una nota. E poi, soprattutto, ci sono le canzoni, che pagano pegno a diverse fonti di ispirazione, certo, ma che trovano un quid di originalità nell’armonia fra riff energici e uncinanti melodie, di facile presa, ma mai declinate in chiave mainstream.
Non c’è un filler, e questo è un miracolo, e Hannah se la cava benissimo sia quando spinge il pedale sull’acceleratore (l’iniziale Bomb Throught The Breeze è un rock blues sporco e sudato, che non fa prigionieri) sia quando imbraccia la chitarra acustica e cesella una ballata da urlo, come la conclusiva Shadow Boxes And Porcelain Faces. In mezzo tanta sostanza e tante ottime canzoni, che riascoltare più volte è un autentico piacere.
Che la Wicklund sia brava e talentuosa, non c’è alcun dubbio, e basta anche solo un ascolto di questo disco per farci capire di non essere di fronte all’ennesimo clone di Janis Joplin; tuttavia, ciò che fa veramente la differenza sono la sincerità e l’entusiasmo dei vent’anni, due elementi che innervano di passione le sue canzoni, dalla prima all’ultima nota. Si chiama il lato selvaggio del rock’n’roll, quel sangue e quel sudore, che sono gli unici due valori che, alla fine, contano davvero qualcosa.