L’eleganza è fatta di piccoli ma fondamentali bilanciamenti. Dettagli, accenni e minimali equilibri, semplici e disarmanti. Se a questa si aggiungono le tinte cupe ed erotiche date della contemplazione dell’oblio, le atmosfere di una notte illuminata dalla luna, un drappo di seta e velluto che ci lambisce la pelle nuda, una voce che ci sussurra sensuale alle spalle, alimentando un caldo brivido che dal collo scende fino a pervaderci, allora ci ritroviamo quasi ridestati: subdolamente eccitati e al tempo stesso rapiti dall’incanto lucido e lisergico di una placida marea, pronta a divenire maelstrom danzante.
Una seduzione onirica gestita con nitida e pesata razionalità. Questa la soluzione sonora che i Seahaven ci iniettano endovena con Halo of Hurt. Dopo più di due anni in cui il quartetto non ha toccato strumento, rassegnandosi all’inevitabile fine, dove nessuna direzione futura sembrava essere quella giusta, i californiani si sono ridestati, prendendo nuovamente coscienza della magia che potevano essere in grado di creare, se solo si lasciavano guidare da quello che è sempre stato il loro elemento, facendo fluire le note senza pensare troppo a schemi, obblighi e direzioni.
Ciò che è emerso da questo primo nuovo capitolo dopo sei anni di silenzio è un flusso denso, delicato, pennellato con grazia e attenzione ad ogni strumento, ma al tempo stesso inquieto e ricco di progressioni tese e volubili. Un viaggio astrale, intensamente e intrinsecamente lunare, tra fasi, maree e tuffi tra algide calibrature sonore, ma in preda a correnti di pulsioni emotive. Una composizione complessa e delicata, dove in ognuna delle nove canzoni di Halo of Hurt ci si ritrova all’interno di un universo crepuscolare e in costante mutamento.
Quelli in cui si è immersi sono quaranta minuti in cui la disposizione d’animo è costante e uniforme, ma al tempo stesso continuamente soggetta alla dinamica, dove gli accenti sono giocati tra aggiunte e assenze, creando uno spazio in cui le ombre giocano a scacchi con i demoni. La pece diventa dolce come il miele e nel nero abisso ci si dondola ammaliati, avvolti dalle lussuriose lusinghe di Eros e Thanatos. Un dito sfiora lo specchio immobile di uno stagno senza fondo e il riverbero dei cerchi sull’acqua ci rende dimentichi di ogni altro pensiero.
Ogni traccia fluttua nell’etere, magnetica, tentacolare e densa di elegie spezzate. Una scrittura raffinata, introspettiva e tragicamente senza speranza, vulnerabile ma potente, sussurrata con il tono di chi contempla tramonti oscuri ed è rapito dalla loro ammaliante bellezza. Un viaggio da compiere soli, al buio, sino a che ogni lacrima non diventa diamante e ogni ossessione poesia.
«Dormire in una bara, cercando di andare in paradiso. Annegare nell'acqua santa, ancora e ancora» (“I Don’t Belong Here”)
«La tua forma inizia a cambiare. Ho fantasticato che tu fossi un giocattolo per bambini, che ho scosso davvero forte, fino a che non ci sei stata più» (“Eraser”)
«L'orologio continua a prendermi in giro ad ogni tramonto. Entra in un mio sogno, trasformati in un dente di leone. Benvenuto nell'uragano. Ti auguro tutte le cose migliori». (“Dandelion”)