Se ci si pensa è abbastanza impressionante e nient’affatto scontato che una band rimanga sulla scena per trent’anni senza mai perdere un briciolo della propria credibilità. Gli Amorphis sono tra i pochissimi ad esserci riusciti e lo hanno fatto evitando i due principali rischi a cui ogni act deve cercare di sfuggire superato il giro di boa dei sette-dieci anni di esistenza: da una parte trasformarsi in una macchina celebrativa dei propri vecchi successi, ripiegati in una dimensione incontaminata ad esclusivo uso e consumo dei fan più affezionati; dall’altra, continuare a produrre dischi nuovi a scadenza periodica ma senza nessun segno di interessarsene, usandoli come mero pretesto per andare in tour a riproporre i soliti vecchi brani.
La band finlandese ha seguito un destino ben diverso: mai adagiatasi sugli allori dei capolavori Tales From a Thousand Lakes ed Elegy, ha immediatamente cercato nuove strade espressive, anche allontanandosi per un certo periodo dal Metal. Con l’ingresso del cantante Tomi Joutsen, nel 2004, hanno progressivamente ripreso ad irrobustire il proprio sound (Silent Waters, del 2007, ha avuto probabilmente un ruolo decisivo in questo processo) ma questa sorta di ritorno all’ovile non ha coinciso con una ripetizione manieristica di una formula vincente. O meglio, pur nella innegabile continuità stilistica, l’asticella qualitativa è stata sempre posizionata bene in alto. Niente cali di tensione, niente crisi creative: la seconda parte della discografia degli Amorphis è una lunga serie di mezzi capolavori (l’ultimo Queen of Time lo è senza dubbio), a dimostrazione che “stabilità” non fa per forza rima con “comodità”.
E così eccoli di nuovo, a poco meno di quattro anni di distanza dall’ultimo capitolo, dopo l’interludio del doppio live dello scorso anno, prezioso surrogato in una fase come questa di totale privazione dei concerti.
Halo è l’album numero 14 della loro discografia (è un luogo comune dire che mi sento vecchio?) ed è il primo per Atomic Fire, la nuova etichetta fondata da Markus Staiger della Nuclear Blast, che di fatto si è portato via una buona fetta del vecchio roster (i finlandesi erano accasati con la label di Dondzdorf praticamente da inizio carriera) è prodotto ancora una volta da Jens Bogren (quindi una garanzia), masterizzato da Tony Lindgren, ed è come sempre incentrato sul “Kalevala” di Elias Lönnrot, adattato nei testi da Pekka Kainulainen, artista visivo e paroliere che collabora col gruppo dal 2007.
La copertina è forse un po’ meno ispirata del solito ma per quanto riguarda i contenuti musicali ci sono pochi dubbi. Ancora una volta il sodalizio creativo tra il chitarrista Esa Holopainen e il tastierista Santeri Kallio ha dato i frutti sperati, assieme alla solita prova maiuscola di Tomi Joutsen dietro il microfono, come sempre a suo agio sia coi growl che con le clean vocals.
A proposito di growl, è giusto notare che seppure le coordinate stilistiche siano le solite, con l’impronta inconfondibile del gruppo che svetta inconfondibile sin dalle melodia portante di “Northwards”, in linea generale questo disco appare più duro degli immediati precedessori. Le strofe sono in generale più massicce, con le ritmiche spesse delle chitarre in primo piano e il growling che si ritaglia un grosso spazio, spesso e volentieri relegando la voce pulita al solo ritornello. Era più o meno il modus operandi che adottavano ai tempi di Elegy e non sarebbe un’esagerazione dire che brani come “Windmane” e “War” si richiamano idealmente a quella fase.
Halo esprime senza pudore la componente estrema della band ma non rinuncia ovviamente a quella più ariosa e melodica: la ricetta, senza girarci troppo attorno, è sempre quella, il Folk epico nel tema principale delle varie canzoni, il ritornello killer da singalong immediato. In questo senso il singolo “The Moon” è da manuale, esempio perfetto di come scrivere sempre lo stesso pezzo ma farlo sempre talmente bene che è impossibile annoiarsi. Più o meno stessa cosa per la cupa “On the Dark Waters”, le più veloci “A New Land” e “The Wolf” e la title track, che è probabilmente la migliore dell’intero album, soprattutto per un refrain davvero magnifico.
La band è in forma anche per quanto riguarda l’assemblaggio delle strutture, che a questo giro vengono arricchite di qualche soluzione in più, come break centrali semi acustici e parti corali dal sapore operistico (“Northwards” e “Halo” sono due ottimi esempi ma anche la conclusiva “My Name is Night”, controcanto femminile e generale feeling da ballata ancestrale). Non sono esattamente cose mai provate prima ma direi che in passato erano apparsi più lineari.
Niente di più di questo, dunque. Forse, ad essere proprio pignoli, Queen of Time era un mezzo punto sopra, visto che un brano della portata di “The Golden Elk” qui non ce l’abbiamo. A più di vent’anni dall’esordio, comunque, gli Amorphis hanno scritto un disco che ha ben poco da invidiare al passato e suonano ancora freschi e pieni di passione, proprio come quando li ascoltai per la prima volta. Sarà forse per questo che, tra una cosa e l’altra, non li ho mai mollati e attualmente sono uno dei pochissimi gruppi Metal che seguo con entusiasmo.