Sono passati più di vent’anni da quando M.C.Taylor ha iniziato a fare musica. Vent’anni in cui il musicista californiano ha cercato forme diverse di espressione, iniziando a suonare con gli Ex ignota, band di hardcore punk, per proseguire la carriera come membro dei The Court & Spark, gruppo country rock di stanza a San Francisco. La svolta decisiva, però, è arrivata quando, verso la fine degli anni ’00, Taylor si è trasferito in Nord Carolina, dando vita, appunto, al progetto Hiss Golden Messenger. Durante questo periodo, ha consolidato e perfezionato la sua scrittura, ha continuato a indagare con intelligenza e trasporto intuitivo sull’America, inteso come luogo in cui vivere ma anche come storia da raccontare, soffermandosi su temi a lui cari come la fede, le tribolazioni del dubbio, il microcosmo della famiglia e le responsabilità che ne sono connesse. Halleluja Anyhow è un ulteriore passo avanti, sembrerebbe definitivo, verso l’affinamento del suo songwriting: nonostante i tempi siano cambiati (la presidenza di Trump che succede a Obama), Taylor continua a lanciare messaggi positivi, raccontando storie di vita vera, di miseria e di dolore, cercando però di mantenere intatto lo sguardo limpido della speranza (“I’ve never been afraid of darkness, it’s just a different kind of light” recita programmaticamente il testo di Jenny of the Roses, la canzone che apre il disco). E’ questo il mood che attraversa l’album e che permea le dieci canzoni che ne compongono la scaletta: un andamento leggero, sviluppato attraverso melodie solari, a cui, però, fanno da contrappunto testi ispirati e riflessioni profonde, in un unicum che potremmo agilmente definire come dolce amaro. Ne consegue che Halleluja Anyhow (il titolo rispecchia fedelmente il pensiero di Taylor) può essere ascoltato su due diversi piani emotivi: il primo, spensierato, esattamente come suonano quasi tutte le canzoni del disco (la sola I’m The Song è attraversata da una palpabile tensione); il secondo, invece, testi alla mano, accettando di immergersi nelle più profonde riflessioni di Taylor, su cosa, ad esempio, significhi, in tempi bui come questi, essere un cittadino coscienzioso e compassionevole, e affrontare il dolore e la fatica di vivere con il sorriso sulle labbra. Non un disco di protesta, come il songwriter ha precisato, ma un disco di resistenza, che guarda negli occhi il potere (politico), raccontando in modo diretto un altro futuro possibile, una speranza che rafforzi e rassicuri chi si sente impotente di fronte alla vita. Taylor ha scritto queste canzoni in un paio di giorni e ha portato in studio la band (il batterista di lunga data Matt McCaughan è stato sostituito da Darren Jessee dei Ben Folds Five) per arrangiare i brani rapidamente, come se una qualche esitazione potesse attenuarne l’urgenza. Il risultato è un disco di country soul, che strizza l’occhio a Dylan (Lost Out in the Darkness e Gulfport, You’ve Been on My Mind), che potrebbe richiamare alla mente Bon Iver (Jon The Gun), se non fosse per l’inaspettato e bellissimo assolo di sax di Michael Lewis che divaga nel finale del brano, che replica in versione light un riff alla Keith Richards (Domino) e che si chiude con le fragranze gospel di When The Wall Comes Down, ballata col cuore in mano, che riflette sulla bellezza, il dolore e la caducità dell’uomo. A Taylor perdoniamo volentieri una delle più brutte copertine dell’anno e la mancanza di quello scarto di originalità che gli consentirebbe, finalmente, di scrivere quel capolavoro che ancora manca alla sua discografia. Tuttavia, un disco come Halleluja Anyhow raggiunge lo scopo che si è prefissato (far riflettere, divertendo) e appare, oltretutto, quanto mai necessario in un mondo in cui troppo spesso ci abbandoniamo allo sconforto, invece di veicolare gioia e speranza.