Dopo tredici anni di carriera e cinque album in studio, gli svedesi H.E.A.T tornano con un nuovo album, il primo interamente autoprodotto. Una novità assoluta, quindi, che testimonia idee chiarissime e la sicurezza e la maturità raggiunte dalla band nel corso del tempo, ma che al contempo segna anche un ritorno alle origini, evocate dal titolo dell’album, che ricalca quello dell’esordio, e la volontà di dare vita a un nuovo inizio, una ripartenza che riprenda le sonorità passate, modificandole però attraverso una visione musicale più moderna.
Il risultato è un disco brillante e centratissimo, forse il miglior lavoro della band in assoluto, arrivata oggi ad avere un suono immediatamente identificabile. Piacciano o meno, gli H.E.A.T, nel panorama attuale, sono probabilmente i migliori interpreti del genere, capaci di abbinare un songwriting ispiratissimo e capacità tecniche fenomenali, e questo sesto album, composto da undici scintillanti canzoni, suona come un definitivo certificato di qualità.
Riff arrembanti, sezione ritmica potente, fiumi di tastiere a riempire ogni spazio e melodie uncinanti, smerigliate dalla voce impossibile di Erik Gronwall, la cui ugola, quando si tratta di note alte, è capace di qualunque cosa. H.E.A.T II non ha un punto debole, non conosce filler, ma vola via per quarantacinque minuti sulle ali di classic rock energico e pompato, capace di entusiasmare, miscelando alla perfezione la potenza tonitruante del metal a ritornelli acchiapponi da canticchiare a memoria già dopo il primo ascolto. Come i Van Halen che rifanno le canzoni dei Journey, o viceversa.
Il disco si apre con Rock Your Body e da questo momento in avanti è impossibile non farsi rapire da un headbagging compulsivo: l’abbraccio fatale fra chitarra e tastiere, la batteria pompata, la linea di basso martellante per un’esplosione incontenibile di energia su cui la voce adamantina di Growall da inizio alla sua arrampicata verso il cielo.
Segue un filotto di canzoni goduriosissime, a partire dal riff assassino di Dangerous Ground, a cui si accodano il devastante heavy blues di We Are Gods, il tiro pazzesco di Adrenaline (ti entra in testa e non ne esce più) e le armonie zuccherine di Nothing To Say, ballatona malinconica in quota Europe.
Talvolta il suono può apparire opulento e, qui e là, qualche arrangiamento lezioso toglie un po' di respiro alla proposta. Si tratta, però, di sfumature, particolari che nulla tolgono a un disco pimpante e divertentissimo, che si ascolta a raffica, ogni volta, con rinnovato piacere.