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REVIEWSLE RECENSIONI
09/12/2017
The Pretty Things
Greatest Hits
Bravi, anzi bravissimi, ma commercialmente insussistenti. Si potrebbe descrivere così, senza troppi fronzoli, la parabola di una delle band più interessanti degli anni ’60, destinata però a essere, anche nel tempo, oggetto di culto per pochi aficionados

Bravi, anzi bravissimi, ma commercialmente insussistenti. Si potrebbe descrivere così, senza troppi fronzoli, la parabola di una delle band più interessanti degli anni ’60, destinata però a essere, anche nel tempo, oggetto di culto per pochi aficionados. Formatisi a inizio sixties, con quel nome preso in prestito da una canzone di Bo Diddley, i Pretty Things si affacciano allo star system in piena british invasion, senza tuttavia godere di quei ritorni mediatici ed economici di tante band coeve.

Capitanati da Phil May e dalla sua ugola abrasiva, e da Dick Taylor, chitarrista dal suono sporco e acidissimo, la band londinese pubblica nel 1965 l’omonimo esordio, disco di grezzo R&B bianco alla Rolling Stones. Ed è proprio con questa band che si sprecano paragoni artistici, anche se l’approccio di May e Taylor è molto più primordiale e incandescente rispetto aquello del gruppo capitanato da Mick Jagger.

Forte di alcune travolgenti reinterpretazioni di classici (Big City, Honey I Need), l’album sale fino alla sesto posto delle charts britanniche, regalando ai Pretty Things l’unica soddisfazione commerciale della loro carriera. La band però si è creata una brutta fama, quella di gruppo sporco e cattivo e di pericolosi attaccabrighe, nomea, questa, che li terrà lontani dai palchi americani e dai circuiti che contano davvero. Get The Picture?, uscito lo stesso anno, ricalca lo stile del predecessore con ancora maggior immediatezza: acidi, feroci, lontani da ogni compromesso pop, May e Taylor tratteggiano uno straordinario affresco rock blues che ha come numi tutelari il citato Bo Diddley, Howlin Wolf e Chuck Berry.

La svolta artistica, però, è alla porta. Quando esce Emotions (1967) la band sposta il proprio suono verso territori decisamente meno incandescenti, plasmando un folk rock arrangiato con l’aiuto di fiati e di archi e accentuando la vena psichedelica, tanto in voga in quegli anni. Altro fiasco di vendite, ma Emotions resta fondamentale, perché prepara il terreno per quel S.F. Sorrow, che vedrà la luce nel 1968, consegnando la band alla storia. Un disco che non regalerà ai Pretty Things il successo sperato, ma che entra di diritto nella leggenda, perché è il primo concept album della storia, anticipando di un anno Tommy degli Who.

Messa da parte l’istintività degli esordi, S.F. Sorrow sviluppa un coagulo di idee sperimentali, in cui convivono massicce dosi lisergiche, estetica naif, beat e proto progressive. E qui, l’avventura della band praticamente si chiude: Taylor molla e si dedica al lavoro di produttore, gli altri continuano col marchio di fabbrica pubblicando Parachute (1970), disco che vira decisamente verso un pop melodico brillante ma poco significativo. La band si scioglierà nel 1976, per tornare poi periodicamente insieme per concerti e pubblicazioni di dischi, tutti così così.

La Madfish ha pubblicato quest’anno un prezioso greatest hits, che raccoglie in venticinque canzoni il meglio della carriera della band, dagli esordi fino alla recentissima cover di Mr. Tambourine Man di Bob Dylan. Il cofanetto contiene, oltre a un ricco booklet, un secondo cd, che fotografa la band dal vivo in un infuocata performance tenutasi al mitico The 100 club di Londra nel 2010. Un’occasione irripetibile per scoprire (o riscoprire) una delle epopee rock più avvincenti e sfortunate della storia.