Quanti successi ha mietuto Steve Winwood. Ci si accorge di questa cosa lasciando scorrere il fluido Greatest Hits Live, ove è stupefacente rendersi conto di come solo sette note musicali possano riprodurre una infinità di melodie, armonie e suoni. Si tratti di vecchi pezzi dello Spencer Davis Group, delle trame ipnotiche dei Traffic, oppure dei suoi inni “Yuppie” degli Anni Ottanta, la sostanza non cambia: ci troviamo di fronte a un artista che non ha mai fermato la crescita personale, come dimostrano le frontiere jazz e soul scardinate nelle ultime produzioni e qui presenti con raffinatezza e garbo.
Non solo una passeggiata nel passato, dunque. La scaletta parte forte, anche se lui e la band si prendono il loro tempo, rallentando i ritmi (l’iniziale "I'm a Man" non va più di fretta e ha inflessioni caraibiche) e allungando le canzoni pure per più di sette o otto minuti, abbastanza per cavalcare e scendere da un groove a un altro e per avere ogni musicista come solista. Il buon Steve sceglie un fior di session man ad accompagnarlo, con il superbo chitarrista Josè Neto a dare un tocco latino a pop hit come “Higher Love”, davvero deliziosa a partire dal fantastico intro d’organo, e a cover del calibro di “Why Can’t We Live Together” di Timmy Thomas (dal bellissimo About Time del 2003). Batteria e percussioni sono saldamente nelle mani di due veterani, Richard Bailey e “terremoto” Edson ‘Cafè’ da Silva, i quali imperversano in tutto il doppio CD, da “Fly”, una gemma pescata dall’ultimo lavoro in studio Nine Lives (2008), a pezzi da novanta del livello di “Freedom Overspill” e “Roll With It”.
Forse il momento in cui il Winwood si lascia meno andare capita nel frangente della rivisitazione del repertorio Blind Faith, troppo recente la reunion con Eric Clapton per suonare in modo sentito e personale quei brani. Così “Can’t Find My Way Home” e “Had to Cry Today” scorrono senza particolare scossoni, con quest’ultima tuttavia a palesare quanto Winwood non sia solo uno dei re dell’Hammond Organ, ma anche un eccellente chitarrista e pregiato compositore. E se il bassista in questo combo non esiste, bastano alla bisogna appunto i bass pedal dell’organo di cui il Nostro è maestro, è presente e si sente eccome il polistrumentista Paul Booth, alle tastiere, sassofono e flute.
Il suo tocco nella rilettura di “Them Changes” del compianto Buddy Miles e nel momento in cui si evocano i Traffic è imprescindibile: scorrono “Low Spark of High Heeled Boys”, “Empty Pages”, “Dear Mr Fantasy”, “Rainmaker, “Pearly Queen” e “Glad” senza che sia impossibile non scenda la lacrimuccia. Quanti evergreen scritti in solitaria o con Jim Capaldi, vere pietre miliari della musica rock psichedelica. Nella raccolta figurano pure la rivisitazione folk di “John Barleycorn”, l’onirica “40,000 Headmen”, “Walking in The Wind” e la bizzarra “Medicated Goo”, il cui testo incarna perfettamente l’obiettivo che il gruppo voleva raggiungere, ovvero lanciare un messaggio profondo da carpire in mezzo a parole dal doppio senso.
«L'album è sicuramente un omaggio a tutte le band con cui ho suonato. Negli ultimi dieci, quindici anni ho cercato di reinventare molte delle vecchie cose, dando loro trattamenti diversi. L'impostazione di base del gruppo è una rivisitazione del vecchio trio jazz, che era composto da organo, chitarra e batteria, con l'aggiunta di percussioni e di un suonatore di fiati».
(Estratto di intervista di Tom Pinnock a Winwood del marzo 2018, uncut.co.uk.)
Desiderio di rinnovamento e voglia di offrire un ampio spettro di canzoni famose in una nuova chiave di lettura sonora e interpretativa ricevono ampia conferma dalle parole del “Ray Charles bianco”, tuttavia ricordi e passioni si arrampicano come foglie di edera ai rami testardi della nostalgia mentre si ascolta “Gimme Some Lovin’”, singolo realizzato nel 1967 con lo Spencer Davis Group e perfetta commistione tra ruggiti rock e velleità r&b. E anche quegli splendidi compromessi tra synth pop e blue eyed soul intitolati “While You See a Chance” e “Arc of a Diver” toccano il cuore brillando di nuova luce, spogliati dagli orpelli degli arrangiamenti troppo di cartapesta degli eighties.
Registrato in svariate location e in differenti date durante il secondo decennio del nuovo secolo, Greatest Hits Live trova come collante una band ben rodata, un Winwood audace in forma stratosferica, sia dal punto di vista della sua performance strumentale, ed è da urlo (solo per citarne una) “Back in the High Life Again” al mandolino, sia da quella vocale, che visto l’implacabile scorrere del tempo non è pleonastico ritenere scontata.
«La voce è un muscolo. Il corpo non può fare quello che faceva quando avevo venticinque anni, e la voce è simile. Ma mi è venuto in mente che se si osservano le persone anziane che giocano a tennis, grazie agli anni di gioco leggono meglio la palla, quindi non devono muoversi così velocemente. È la stessa cosa con il canto. Ho iniziato a suonare dal vivo circa sessanta anni fa e da allora l'ho fatto per tutta la vita. Mi piace ancora, però non voglio farlo così intensamente come in passato. In questo modo, si mantiene l'entusiasmo».
Ecco, in sintesi, la nuova filosofia del buon “vecchio” Steve: un musicista enorme, che ora, con saggezza, si centellina e conserva, comunque pronto a offrire la propria parte con generosità, affinché le sue doti impareggiabili non si disperdano. Un po’ come cantato proprio in “Back in the High Life Again”, tanti anni prima:
"Mi sembrava che la mia vita scorresse troppo velocemente
E dovevo prenderla con calma solo per far durare le parti migliori
Ma quando sei nato per correre è così difficile rallentare
Quindi non stupitevi di vedermi di nuovo in quella parte luminosa della città
Tornerò a fare la bella vita di nuovo
Tutte le porte che ho chiuso una volta si apriranno di nuovo
Tornerò a fare la bella vita di nuovo
Tutti gli occhi che mi hanno osservato una volta sorrideranno e mi accoglieranno"