L’organo elettrico e il jazz hanno un rapporto duraturo a partire dagli anni Trenta, quando Fats Waller e Count Basie utilizzano lo strumento nelle proprie scorribande musicali, tuttavia è la tecnica di improvvisazione virtuosa di Jimmy Smith a far breccia nell’universo del genere a metà anni Cinquanta. Le svisate del musicista della Pennsylvania sono contraddistinte da uno stile, una tonalità e una tecnica unica, che vengono emulate in seguito da molti tastieristi, come Art Neville, Brian Auger, Larry Young e Keith Emerson, ma la lista sarebbe infinita. La sua genialità è incontrovertibile e una delle peculiarità è rappresentata dalla duttilità della sua impostazione, calibrata sulle caratteristiche delle canzoni, con la modifica di atteggiamento nell’esecuzione a seconda si tratti di brani midtempo, ballate o a tempo veloce, e con la gestione delle linee di basso basandosi su ritmo, melodia e armonia.
L’Hammond B-3, il jazz e la musica soul vivono sotto uno stesso tetto proprio grazie alle performance indiavolate di tal soggetto che già all’età di sei anni si unisce al padre in una serie di canti e balli nei club. Il giovane Jimmy inizia a suonare il pianoforte da autodidatta e vince un talent show della radio di Filadelfia poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Dopo un periodo nella Marina degli Stati Uniti, prosegue nel perfezionare la sua formazione musicale frequentando collegi e scuole dedicate all’arte delle sette note, fino ad arrivare a metà Cinquanta nel pieno delle proprie abilità all’organo. E, ottenuto un contratto con la Blue Note, si consacra come nuova stella della scena jazz, anche se la vera svolta avviene nel ’62, ormai trentasettenne, quando firma per la Verve. Seguono alcuni album di successo, tra collaborazioni con big band come Bashin’: The Unpredictable Jimmy Smith (1962), The Cat (1964) e il ritorno al trio ensemble di Organ Grinder Swing (1965), prima di trovare una via di mezzo l’anno successivo con Got My Mojo Workin’, strutturato in un quartetto per il lato A e allargato a otto membri, per inserire una vigorosa spruzzata di fiati, nel B.
Arrangiato e condotto da quell’istituzione a nome Oliver Nelson, produttore, sassofonista e clarinettista, re del bepop e icona della jazz fusion, Got My Mojo Workin’ vanta il contributo di alcuni tra i più grandi musicisti della scena americana del genere di quel periodo, dal magico chitarrista Kenny Burrell al leggendario contrabbassista Ron Carter, senza dimenticare l’importante drumming di Grady Tate, abile nel dispensare tocchi e tempi sfocianti nel soul. L’opener "Hi-Heel Sneakers" porta subito all’impalcatura sonora architettata per il disco: se il filo conduttore è ovviamente il jazz, ogni brano poi si snoda abbracciando altre categorie musicali, mantenendo sempre la profonda impronta del titolare del progetto, irrefrenabile all’organo elettrico.
Dagli iniziali territori blues si vira nel rock dei Rolling Stones, per una versione spiritata di uno dei loro più celebri brani. "(I Can’t Get No) Satisfaction" assume contorni inusitati e si erge a vetta dell’opera. Smith riesce con ispirazione e intuito a rivoltare come un calzino il pezzo delle pietre rotolanti, trasformandolo in una cavalcata jazz funk imperniata sul suo Hammond: le sue mani imperversano sciabolanti sulla tastiera, volano colpi che sembrano mitragliate e così si crea un mood assolutamente nuovo, comunque coerente con lo spirito rivoluzionario della canzone. I suoi celebri grugniti e borbottamenti trovano un modo di esistere in questa rivisitazione -dai connotati naif- del tastierista.
Se proprio si volesse trovare un difetto alla scaletta di quest’opera, la seguente "1-2-3" pare tratta da una melodia fin troppo mielosa, resa celebre dall’idolo degli allora teenagers Len Barry, peraltro compensata dalle gesta ai tasti del buon Jimmy. L’autografa "Mustard Greens" rialza l’asticella, e sarebbe da accogliere con un boato la ripresa dello standard blues "Got My Mojo Working", classico dei classici di Muddy Waters, riletto in chiave pop jazz e sempre invitante inno al mistero dei riti voodoo, esaltazione dei poteri emanati da amuleti e talismani. Anche un personaggio importante per l’evoluzione del jazz come Billy Strayhorn viene riproposto grazie a una straordinaria versione della sua intrigante "Johnny Come Lately", e non è un caso che a questo pezzo segua "C-Jam Blues" del Maestro Duke Ellington, dato il profondo collegamento tra i due compositori, frutto di una collaborazione trentennale e origine di brani indimenticabili come "Take the 'A' Train".
L’autografa e istrionica "Hobson’s Hop" chiude un album spavaldo, ficcante e ingegnoso, mai ridondante, che il 2 aprile 1966 entra nella Billboard Top 100; quella settimana nei primi dieci posti delle classifiche trionfano le canzoni dei Beatles e di Simon & Garfunkel, oltre al meno conosciuto Barry Sadler, ma, più in fondo, in ottantesima posizione c’è pure spazio per l’LP di Jimmy Smith, un artista che prosegue con gran slancio la carriera anche negli anni Settanta. Il suo eccentrico live Root Down (1972) è di fondamentale influenza per le generazioni successive di musicisti con matrice funk/hip-hop e proprio un motivo dallo stesso titolo dei Beastie Boys utilizza nel 1994 un sample di "Root Down (And Get It)", proveniente dal quel lavoro seminale.
Definito spesso, inoltre, padre dell’acid jazz, Smith ha vissuto una specie di rinascita nel periodo di maggior splendore di quel movimento, che vede nel James Taylor Quartet un notevole riferimento. Le decadi Ottanta e Novanta sono quindi per lui di eccellente livello e, oltre alle sue incisioni soliste in studio, registra per Quincy Jones, Frank Sinatra, Michael Jackson (lo si può sentire nella title track del pluripremiato Bad), Dee Dee Bridgewater e per uno dei suoi discepoli, il recentemente scomparso Joey DeFrancesco. A inizio 2001 esce a suo nome Dot Com Blues, un’opera ricca di guest star, da B.B. King ed Etta James a Dr. John, Taj Mahal e Keb’ Mo’, tutti felici di rendere onore a uno dei più grandi, a colui che, soprannominato Incredible!, è riuscito a forgiare un genere tutto suo, l’organ jazz.
Jimmy Smith abbandona questo mondo nel 2005, muore nel sonno nella sua casa di Scottsdale, in Arizona, dove si era trasferito con la moglie un anno prima. Certamente era provato dalla recente scomparsa di quest’ultima per cancro, ma stava incidendo del materiale con il suo pupillo DeFrancesco e pianificava un tour insieme a lui. Il loro disco Legacy esce postumo sempre quell’anno.
L’Incredibile Jimmy Smith lascia in eredità un patrimonio musicale unico, irrobustito dalla sua innata capacità di sdoganare la commistione di generi nel jazz, facendo dialogare i virtuosismi strumentali con il pop e il folk, sempre senza dimenticare il suono delle radici e rendendo le sue opere materia viva, rivolta a una platea eterogenea, sradicando steccati.
“Quando suono, mi dedico completamente al pubblico. Conosco tutti i tipi di trucchi del mestiere. Diciamo che ho un bagaglio artistico variegato da cui attingere. Spesso ho mutato melodia nel bel mezzo di un numero se non riuscivo a raggiungere gli spettatori. Lo so, lo ritengo una mia forza, riesco a capire quando una cosa non mi convince e allora cambio un po' le carte in tavola con la magia dell’improvvisazione”.