A pensarci bene, i Dawes sono in giro solo da una decina di anni – anche se la loro origine va ricercata più indietro nel tempo, quando il frontman Taylor Goldsmith e Blake Mills, ora uno dei produttori e chitarristi più richiesti nel panorama Pop Rock contemporaneo, erano compagni di scuola in un liceo di Malibù e giravano la California sotto il monicker di Simon Dawes –, ma hanno già percorso tutte le tappe di ascesa-declino-e-risalita tipiche di tante Rock band.
Dopo i primi quattro dischi, tutti ottimi (North Hills, Nothing Is Wrong, Stories Don’t End e All Your Favorite Bands), dove hanno saputo unire con perizia il sound Americana per antonomasia della Band, quello tipico del Laurel Canyon à la Crosby Stills & Nash e il cantautorato confessionale di Jackson Browne con l’energia e l’urgenza dell’Indie Rock, i Dawes si sono infatti persi per strada, pubblicando due dischi fuori fuoco come We’re Gonna Die e – soprattutto – Passwords, quest’ultimo fortemente influenzato dall’Adult Contemporary Rock plasticoso tipico della fine degli anni Ottanta.
Fortunatamente, i Dawes – Taylor Goldsmith (voce, chitarra), Griffin Goldsmith (batteria), Wylie Gelber (basso) e Lee Pardini (tastiere) – ci hanno messo poco per rimettersi in carreggiata. Prima lo hanno fatto per interposta persona, contribuendo al ritorno discografico di Mandy Moore (moglie di Taylor Goldsmith), con quel Silver Landings uscito la scorsa primavera che è una sorta di omaggio neanche troppo velato ai Fleetwod Mac di Rumours e Mirage, e poi in proprio con Good Luck with Whatever, il loro settimo album in studio.
Registrato a Nashville con il produttore Dave Cobb, già al lavoro con pesi massimi come Chris Stapleton, Jason Isbell, Brandi Carlile, John Prine e sodale di due veri e propri luminari dell’Alt-Country contemporaneo come Shooter Jennings e Sturgill Simpson, Good Luck with Whatever riporta i Dawes sui binari del Classic Rock. E anche se la band guarda ancora all’Adult Contemporary degli anni Ottanta, questa volta lo fa scegliendo con maggiore efficacia le fonti d’ispirazione, andando ad abbeverarsi a quelle più adatte alle proprie caratteristiche e al proprio background musicale. La più evidente delle quali è senza dubbio il lavoro di produzione svolto da Jimmy Iovine per clienti del calibro di Bruce Springsteen, Tom Petty, Stevie Nicks e Dire Straits.
Chiara testimonianza di questo sono infatti pezzi come “None of My Business”, che sembra una outtake di Born in the U.S.A. (senza synth, però!), oppure “Who Do You Think You’re Talking To?” e “Between the Zeros and the Ones”, che potrebbero essere stati scritti da Tom Petty per Hard Promises. “Good Luck with Wathever” e “Did’t Fix Me”, invece, ricordano il primo Bruce Hornsby, mentre la delicatezza di “St. Augustine at Night” fa subito pensare a una pagina intima tratta dal songbook di Mark Knofler. Il disco si chiude invece con la ballata riflessiva “Me Especially”, tra l’Elton John più classico e il Billy Joel meno ruffiano.
È vero, a voler essere pignoli le canzoni di Good Luck with Whatever non battono nessuna nuova strada, né per la band né tantomeno per il Rock in generale. Sono “solo” nove pezzi di quello che alcuni, con sufficienza, etichettano ormai come Dad Rock, ovvero quel tipo di musica che le vecchie generazioni tentano in ogni modo di trasmettere ai propri figli, il più delle volte con scarsi risultati. Ma, a pensarci bene, tra le pieghe delle canzoni e nell’inquietudine strisciante che fa capolino in alcuni testi, si scorge una sorta di terrore esistenziale che ben poca altra musica ha il coraggio di portare a galla. Per cui, onore ai Dawes per aver catturato alla perfezione con Good Luck with Whatever il clima da apocalisse prossima ventura di questo tribolato presente.