Un fatto è indiscutibile: Mike Scott continua a sfornare dichi con una costanza invidiabile. Anzi, a ben vedere, ha addirittura intensificato i tempi di uscita: se nel primo decennio dei 2000 aveva dato alla luce tre album, negli ultimi dieci anni i lavori pubblicati sono addirittura cinque. Un’urgenza espressiva, bisogna essere onesti, non sempre seguita dalla qualità delle composizioni proposte, visto che probabilmente l’unico lavoro davvero meritevole di attenzione è Modern Blues del 2015.
Il resto del repertorio, purtroppo non è stato quasi mai all’altezza di quei dischi leggendari, che, a buon diritto, hanno regalato ai Waterboys un posto di rilievo nel rock alternativo britannico degli anni ’80. Good Luck, Seeker, sedicesimo full lenght in studio, somiglia incredibilmente al suo predecessore, The Action Is Here, uscito lo scorso anno, e ne palesa gli stessi difetti (molti) e gli stessi pregi (pochini).
La sensazione è che Mike Scott abbia perso la strada maestra e si sia smarrito in crocicchi e laterali che non portano da nessuna parte. Anche questo Good Luck, Seeker, infatti, è un ampio contenitore (quattordici canzoni, ventiquattro nella versione deluxe) in cui il “signor Waterboys” fa confluire ogni idea che gli balza in testa, buona o cattiva che sia. Il risultato è così un disco che manca di coerenza e compattezza, a tratti confuso e pasticciato, e soprattutto ben lontano da quello stile unico che aveva fatto di This Is The Sea o Fisherman’s Blues due autentici capolavori.
Il buon Mike, tra l’altro, non canta quasi più, preferendo vestire i panni di affabulante storyteller, e spesso, troppo spesso, ricorre a ritmiche quadrate, e un po' cafone, che tolgono respiro e originalità a brani già di per sé non troppo ispirati. Un disco dall’andamento altalenante, quindi, che si gioca le carte migliori nel folk rock di Low Down In The Broom, che per tre minuti evoca i sentori celtici e le atmosfere epiche dei primi dischi, e nei sette minuti (questi, si, splendidi) di My Wanderings In The Weary Land, un brano dall’architettura rudimentale ma efficacissimo negli esiti, quasi una sorta di We Will Not Be Lovers 2.0, costruito sull’impeto vibrante di tamburi battenti e un lungo e sanguigno duello fra violino e chitarra.
Se queste due canzoni sono le vette del disco, la restante scaletta si divide fra brani piacevoli ma sostanzialmente innocui (il r’n’b iniziale di The Soul Singer, gli echi “madchester” di Freak Street, la saltellante leggerezza di Sticky Fingers, le atmosfere eleganti di You’ve Got To Kiss a Frog Or Two) e canzoni davvero prescindibili e bruttine assai (il rap e l’elettronica che imperversano in Dennis Hopper o il folk celtico da supermercato di The Land Of Sunset, per citarne solo due, senza infierire ulteriormente, sono a dir poco sconfortanti).
Forse, sarebbe il momento per Mike Scott di fermarsi un attimo a riflettere. Visto che di buone canzoni è ancora in grado di scriverne, non sarebbe meglio centellinare i dischi, fare una selezione delle cose migliori e curare maggiormente la qualità?