Quello di Bernard Butler è un nome che evoca subito il passato, anni di grande musica e di una band, gli Suede, che il chitarrista ha accompagnato nei giorni di massimo splendore (i primi due album, Suede del 1993 e l’iconico Dog Man Star del 1994), prima di andarsene sbattendo la porta. Sembra ieri, e invece, sono passati trent’anni, praticamente il tempo di una giovane vita. Mollata la casa madre, Butler aveva iniziato una brillante carriera solista, con due ottimi dischi, People Move On (1998) e Friends And Lovers (1999), che fondevano rock anni '70 e soul, appena venati di pop chitarristico anni '80.
Strano ma vero, sono passati venticinque anni tra Friends And Lovers e questo terzo album solista, intitolato Good Grief. Si tratta di uno iato corposo, anche se nessuno potrebbe accusare Butler di aver perso tempo, data la serie di produzioni che hanno esaltato tutti coloro che lo hanno ingaggiato (si pensi a Duffy per esempio), e le collaborazioni con Catherine Anne Davies, Jessie Buckley e Brett Anderson (amico/nemico degli Suede), solo per citarne alcune.
Non sorprenda, dunque, che il tempo trascorso e tutta l’esperienza accumulata si rifletta nelle canzoni di Good Grief, il disco di un uomo che ha superato la cinquantina, che ha vissuto un sogno da rockstar, e che forse lo stava consumando, che ha dovuto cercare il bandolo della matassa della propria esistenza, trovando gioie, ma anche rimpianti, quel senso di declino, che, in qualche modo, la musica ha attenuato, senza cancellare, però, completamente.
Good Grief riflette su tutto ciò, intriso della malinconia che si prova osservando il tempo che passa inesorabilmente, lo scorrere dei giorni che incide su amori e rapporti interpersonali e professionali. Butler, però, controlla la materia, mantiene le distanze e cammina in punta di piedi, cerca il tono colloquiale e famigliare, rischiando forse il clichè, ma guadagnandone in sincerità.
La voce di Butler è molto più ferma, più controllata e capace di maggiore espressività e sottigliezza, e dà vita a un perfetto equilibrio fra carezzevole velluto, confortevole robustezza e un vago tremore, che ha più a che fare con l’anima che con il timbro.
Che questo disco non sia realizzato da un ventenne, ma da un uomo navigato, che ha maturato un mondo interiore e ha cercato, e cerca di comprenderlo, è del tutto evidente in queste nove canzoni di musica pacata, ma rotonda e piena, arrangiata con cura artigianale, levigata dalla sapienza di chi ha passato una vita a metter mano ai dischi altrui.
"Camber Sands" è una ballata ricca, che riempie lentamente i vuoti di una melodia straordinaria, ti fa pensare a Bowie e a certe cose dei Waterboys di Mike Scott, al netto di ogni suggestione folk. Procede per accumulo anche la meraviglia di "Deep Emotions", una canzone che accarezza con il velluto della malinconia e ricorda alcuni dei momenti più struggenti degli Apartments, cosa che avviene anche nella sospensione acustica di "Preaching To The Choir", mentre "Living The Dream" si gonfia di archi e di un’energia vivace, ampia, aperta, pronta a spiccare il volo.
Classe infinita e eleganza da crooner in smoking, Butler non sbaglia un colpo, sia quando cerca in una chitarra distorta il contrappunto al respiro armonioso degli archi ("London Snow"), sia quando fluttua a mezz’aria nell’estasi melodica di "Clean".
"The Wind" chiude, con un tocco di intimismo agrodolce, un disco malinconico, ma non rassegnato, elegante, ma non appariscente, intenso ma senza essere melodrammatico. Un ritorno che lascia il segno.