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REVIEWSLE RECENSIONI
22/09/2018
Jonathan Jeremiah
Good Day
Pianoforte, chitarre, hammond, coretti femminili, archi, qualche ottone, e una voce profonda, baritonale, sorniona, calda al punto giusto e ricca di sfumature, sono la tessitura principale di un filotto di canzoni pervase da una nostalgica allegrezza

Quando si parte all’ascolto di Good Day, quarta fatica discografica a firma Jonathan Jeremiah, e primo disco uscito sotto l’egida PIAS, si prova una sorta di sospensione temporale, il fisico coi piedi saldamente piantati nel 2018, la mente e le emozioni, invece, che vagano nella Londra degli anni ’70, magari con l’impressione di essere seduti al pub del quartiere ad ascoltare un giovane songwriter di cui si dice un gran bene.

Insomma, si ha la sensazione che Jeremiah non abbia fatto altro nella vita che ascoltare i dischi di mamma e papà, cercando di replicarne pedissequamente il suono. E’ questa la prima impressione che si ha quando Good Day inizia a girare sul piatto: un disco già sentito, affetto da passatismo e da una produzione artefatta che ha il solo scopo di stendere una patina vintage sulle undici canzoni in scaletta.

E’ solo un attimo, però, perché, di canzone in canzone, l’ascolto si fa sempre più avvincente e, superata l’estemporaneità del momento, ci si accorge di essere di fronte a un piccolo gioiello. La scrittura di Jeremiah, nonostante gli evidenti, e facilmente individuabili, riferimenti stilistici (Lee Hazlewood, Terry Callier, Ritchie Havens, John Martyn, etc), è in grado, infatti, di rielaborare il prevedibile con intuizioni che avvicinano il songwriter londinese al Michael Kiwanuka di Home Again, di conquistare con melodie di facile presa che non sfociano mai nel refrain banale, scegliendo semmai una cifra estetica elegante, un po' demodè forse, ma di rara efficacia.

Pianoforte, chitarre, hammond, coretti femminili, archi, qualche ottone, e una voce profonda, baritonale, sorniona, calda al punto giusto e ricca di sfumature, sono la tessitura principale di un filotto di canzoni pervase da una nostalgica allegrezza.

La title track che apre il disco è un tuffo nel passato, un inno alla retromania, ma al secondo ascolto tutto passa in secondo piano quando si coglie l’equilibrio della struttura, il gusto dell’arrangiamento e quel suono analogico che sa di cose buone di una volta. Jeremiah, però, sa anche essere incredibilmente moderno, piazzando un tormentone come Mountain, un folk carico di soul, punteggiato da un irresistibile whistling e da una tensione che ricorda quella di Take Me To Church di Hozier.

Se il groove di The Stars Are Out è legato a filo doppio con il citato Kiwanuka e U-Bahn (It’s Not To Late For Us) omaggia smaccatamente Burt Bacharach, con Deadweight, sette minuti di mini suite che incastrano malinconia, folk, soul e blaxploitation, Jeremiah sfoggia un songwriting maturo e coraggioso, centrando uno dei capolavori del disco.

Che decolla anche quando il mood si fa più intimo, con due superbe ballate pianistiche quali No-One, dai sentori lennoniani (la matrice è Mind Games), e l’appassionata Shimmerlove attraversata da fremiti welleriani.

Registrato presso i Konk Studios di Ray Davies e prodotto dallo stesso Jeremiah, Good Day rappresenta una delle sorprese più piacevoli dell’anno: un filotto di splendide canzoni dal tocco artigianale, il cui calore emotivo saprà proteggervi dall’arrivo dei primi freddi.