Giorgio Poi, è stato forse l’unico artista (per lo meno in Italia) che nel corso della prima fase della pandemia non si è mai fatto sentire in alcun modo, né con la pubblicazione di nuovi brani e neppure - cosa per cui gli saremo grati in eterno - con una diretta streaming improvvisata nel salotto di casa. Di suo è già uno che i Social li usa il minimo indispensabile (è proverbiale la sua reticenza a pubblicare post su Instagram, ad esempio), aveva da poco terminato il tour del secondo disco Smog per cui immagino che sia stato alquanto naturale per lui chiudersi in casa come tutti, senza dover per forza trovare dei surrogati di normale vita artistica come molti suoi colleghi (spesso e volentieri in buona fede, ci mancherebbe) hanno provato a fare.
In questo periodo abbiamo avuto solo la colonna sonora della serie Netflix Summertime, da cui, oltre alla cover del classico di Bruno Martino “Estate” è scaturita la splendida “Leoni”, che ha poi donato a Francesca Michielin. Da allora niente di nuovo, nessun concerto o apparizione pubblica neppure quando si sarebbe potuto tornare a suonare.
Adesso sappiamo che cosa stava facendo: scriveva, esattamente come ogni artista dovrebbe fare, lontano dai riflettori e provando a dare un senso ad un periodo che sfuggiva ad ogni analisi anche approfondita della questione.
Adesso il frutto di quel lavoro meditativo è fuori, anticipato da due singoli usciti rispettivamente a settembre e a ottobre: si chiama, emblematicamente, Gommapiuma, titolo che è metafora insieme di forza e leggerezza, di leggerezza che è forza, come ha spiegato lui stesso. Canzoni nate in un periodo di fragilità, quando tutto il mondo, non solo quello suo personale, era in caduta libera. Canzoni, ha aggiunto, che hanno evitato che andasse in frantumi, che in qualche modo lo hanno salvato.
Canzoni, si potrebbe dire, che ci consegnano un Giorgio Poi ultra essenziale, lontanissimo dalle acrobazie strumentali dell'esordio “Fa niente” ma pure dall'eleganza e irriverenza Pop di “Smog”.
C’è la medesima impronta nel songwriting (oserei fin troppo, a questo giro è diventato un attimo ripetitivo) ma consegnata ad arrangiamenti che privilegiano l'ensemble da camera, con il pianoforte di Benjamin Ventura e un quartetto d’archi (Sara Pastine e Fausto Cigarini al violino, Salvatore Borrelli alla viola, Lorenzo Cosi al violoncello) ad affiancare il solito Francesco Aprili alla batteria (qui peraltro ridotto al minimo indispensabile).
Il risultato è una serie infinita di ballate, con solo “I pomeriggi” a rappresentare quella quota “Pop anni ‘80 di derivazione dalliana” che è una delle cifre più importanti del cantautore novarese e che pervadeva anche “Erica cuore ad elica”, ultimo brano pre Covid ad essere pubblicato. In mezzo, come a dividere idealmente il percorso narrativo in due parti, la title track, uno strumentale dal sapore agrodolce che risente molto del suo recente lavoro con le soundtrack.
Alcune cose sono riuscitissime, vedi “Giorni felici”, dichiarazione d'amore atipica ad una ragazza che resiste in un mondo che sta andando a pezzi, la febbre di vita e la voglia d’avventura che non spariscono nonostante l’impossibilità di decifrare il contemporaneo. Il tutto condito da un testo che come al solito gioca con l'ironia e fa uso di immagini ardite e apparentemente surreali, e da una melodia che, pur replicando un po’ troppo pedissequamente il modello di “Napoleone”, sa comunque offrire squarci di grande emozione.
È molto bella anche l'opener “Rococò”, che ha la sua forza in un bel refrain, all'inizio interlocutorio ma che dopo qualche ascolto rivela tutto il suo potenziale. E poi c’è “Supermercato”, che riprende in un certo senso l'immaginario anti consumista del “Marcovaldo” di Calvino, attraverso un ritratto divertente ma allo stesso tempo inquietante di una città ai tempi del lockdown.
Questi a mio parere gli highlight, assieme ovviamente alla già citata “I pomeriggi”, unico episodio davvero ritmato e in un certo senso ricollegabile alla passata produzione.
Il resto è sempre di ottima qualità ma non riesce a cogliere pienamente nel segno, compreso il duetto con Elisa in “Bloody Mary”, gradevole ma che tuttavia non decolla mai, il contributo della cantante piuttosto superfluo, con la sua voce che non riesce mai davvero ad impattare sul brano.
È un peccato perché i due lavori precedenti erano di un livello decisamente superiore e avevano generato aspettative altissime, per uno dei pochissimi artisti italiani a sapersi muovere con disinvoltura tra la dimensione It Pop e quella più profonda e cantautorale, spesso operando una sapiente sintesi di entrambe.
Qui l'impressione è che le circostanze drammatiche di questo ultimo anno e mezzo l'abbiano spinto a concentrarsi su una dimensione più intima della scrittura, camminando in punta di piedi e utilizzando gli archi e il pianoforte per recuperare una bellezza e un'armonia a lungo perdute.
Non sarà questo mezzo falso a cancellare lo status di Giorgio Poi, che resta a mio parere uno degli autori più grandi che abbiamo al momento nel nostro paese; la consacrazione è solo rimandata, ma il dispiacere per l’occasione persa rimarrà a lungo, temo.