Quando il 4 febbraio del 1977 esce Rumours, i Flettwood Mac, che già avevano risalito la china della notorietà mediatica con il precedente disco omonimo (1975), conquistano definitivamente un posto nella leggenda. Alla faccia del dilagante punk, il loro soft rock, dalle melodie a presa rapida, fa sfracelli. Undici canzoni semplicemente perfette, infatti, portano Rumours in vetta alla classifica di Billboard, dove resta per trentuno settimane.
Non solo. Il disco fa man bassa di riconoscimenti: disco più venduto dell’anno in Australia, Canada, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e Sud Africa, doppio disco di diamante negli Stati Uniti, quattordici dischi di platino nel Regno Unito, doppio disco di diamante in Usa, due dischi di diamante in Canada, tredici di platino in Nuova Zelanda, platino in Francia e Hong Kong, oro in Spagna e Germania, e un Grammy Award come miglior disco dell’anno.
Non è però solo business, perché la critica impazzisce per la qualità del songwriting e l’eccellenza degli arrangiamenti, tanto che, per dirne una, Rolling Stone certifica Rumours come il settimo disco più importante della storia.
Eppure, poche volte, tanto successo, tanta bellezza e tanta perfezione sono state il prodotto di sessioni di registrazione così turbolente e cariche di pathos emotivo. Quando i Fleetwood Mac entrano negli studi affittati al numero 2200 di Bridgeway, Sausalito (California) la band è, infatti, sul punto di implodere. Lindsey Bickingham e Stevie Nicks sono ai ferri corti, John McVie e Christine Perfect si stanno separando, e Mike Fleetwood è da poco venuto a sapere che la moglie andava a letto con un suo caro amico.
Una polveriera, insomma: volano stracci, esplodono litigi, si assiste ad aggressioni verbali, e non solo, e nel contempo si respira un profumo agrodolce di nostalgia e di precarietà, esasperato da continui eccessi di alcool e di droghe.
Stevie Nicks firma tre pezzi (I Don't Want to Know,e le leggendarie Dreams e Gold Dust Woman), tutti splendidi, tuti splendidamente levigati dall’eleganza formale di Buckingham, che mette al servizio della ex, non senza continui ma fruttuosi battibecchi, il proprio istinto per la melodia e per gli arrangiamenti.
In particolare Gold Dust Woman, che chiude la scaletta del disco, trova nelle chitarre di Buckingham la sua perfetta veste estetica. Il brano viene registrato, nella sua forma definitiva, alle quattro del mattino: Stevie si mette davanti al microfono completamente coperta da una tuta integrale e con occhiali scuri, in modo da isolarsi completamente dal resto della sala. Non certo per timidezza, ma per la necessità di un surplus di concentrazione, visto che il testo della canzone è fortemente emotivo. Anzi di più.
Se nei brani di Rumours i dolori, le amarezze, il desiderio di rivincita dei cinque membri della band sono il tema principale delle liriche, Gold Dust Woman è una vera e propria confessione senza filtri, la spogliazione di una regina, che non solo sente di aver perso la propria corona, ma anche la propria integrità e, forse, il senso stesso della propria esistenza.
Perché la vita della rockstar, per quanto dorata, è un esilio dal mondo, un’esistenza al di sopra delle proprie possibilità, che ti rode l’anima e ti spinge a fare di tutto per poterla affrontare senza soccombere. Ti spinge a fare uso smodato di droga, che anestetizza e non fa sentire il male di vivere. Gold Dust: la cocaina.
Non è un caso che, a inizio canzone, ci sia un verso fulminante come: “Rock on, Gold Dust Woman, Take your silver spoon, dig your grave”. Prendi il tuo cucchiaio d’argento e scava la tua fossa. E ancora: “Rock on, ancient queen, Follow those who pale in your shadow, Rulers make bad lovers, You better put your kingdom up for sale”. “Faresti meglio a mettere in vendita il tuo regno, antica regina”, perché il successo è effimero, è polvere di stelle e non porta da nessuna parte.
Non fa sconti a se stessa, la Nicks, e si analizza con ferocia, sonda la propria anima, riflette sul proprio destino, senza mezzi termini. “Pallida ombra di una donna”, così si definisce, con coraggio, nel finale di canzone: una sofferta presa di coscienza, che rende le atmosfere caliginose del brano ancora più inquietanti. Per brillare come stella del firmamento, la cocaina non serve, serve la forza di guardarsi allo specchio e ricominciare da capo.