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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
06/10/2022
Live Report
Godspeed You! Black Emperor, 04/10/2022, Alcatraz
Musica e immagini costantemente in dialogo tra loro al punto da inglobare totalmente l’aspetto puramente scenico. I Godspeed You! Black Emperor suonano praticamente senza luci di fronte ad un pubblico completamente rapito, per un’ora e tre quarti di una sorta di rappresentazione della fine della civiltà occidentale.

G_d’s Pee At State’s End! è uscito più di un anno fa ma la pandemia ci aveva impedito di godercelo dal vivo. Si sa che la dimensione live è quella dove i Godspeed You! Black Emperor esprimono la loro essenza nel modo più vero e completo possibile, per cui avere avuto a lungo un disco fuori senza poterlo proporre non dev’essere stato facile per loro.

Non si sa come andrà a finire ma sembra che al momento sia tutto ripartito, prova ne è una programmazione concertistica a dir poco bulimica che, complice anche l’aumento spropositato dei prezzi dei biglietti, costringe tutti ad operare scelte dolorose. È proprio l’offerta ad essere gonfiata, però: nella sola serata di martedì, a Milano erano di scena, oltre ai Godspeed, anche i Sigur Ros e Cass Mc Combs, senza contare il Jazzmi nel pieno della programmazione.

Una situazione del genere impone alcune riflessioni: se è vero che in città come Londra e Berlino questa è la norma per parecchi mesi all’anno, in Italia, dove il pubblico è poco preparato, quasi per nulla interessato ai nomi di nicchia, e ha mediamente meno soldi dei suoi concittadini europei, non credo faccia bene avere ogni volta tre o quattro appuntamenti tra cui scegliere. Non c’è solo il discorso di rubarsi il pubblico (valido soprattutto quando abbiamo a che fare con act meno conosciuti) ma anche quello della sostenibilità economica. Concerti poco frequentati saranno concerti che non verranno organizzati in futuro, perché va bene che le band ci amano, ma è vero anche che per loro è un lavoro, se finiscono in perdita da noi non ci verranno più.

Occorrerà pensarci, forse potrebbe essere utile che i promoter si parlino tra loro, pur tenendo conto che i tour sono comunque organizzati dai gruppi e che un discorso simile vale solo per il Nord Italia; o forse, restringendo il campo, esclusivamente per due città come Milano e Bologna.

 

Ma torniamo a noi. Il collettivo di Montreal nel nostro paese gode di un ottimo seguito e per fortuna ci è sempre venuto per più di una data: a questo giro sono tre, con Roma e Bologna ad affiancare Milano.

Quando arrivo sul posto l’Alcatraz, oltretutto già allestito col palco piccolo, quello sul lato lungo, è semivuoto, con appena qualche decina di persone all’interno. Ero propenso a temere il peggio, ma si trattava semplicemente della solita, pessima abitudine dei milanesi ad arrivare dopo le 21 sempre e comunque. Ora delle 21.30, mezz’ora in ritardo sulla tabella di marcia, quando i canadesi saliranno sul palco, il locale, per lo meno nella sua capienza ridotta, risulterà bello pieno.

Nell’attesa c’è da assistere al set di Tashi Dorji. Originario del Buthan (forse unico artista conosciuto all’estero a provenire da qui?) ma cresciuto ad Asheville, North Carolina, opera nel campo della sperimentazione più pura. Sul palco da solo, con la sua chitarra, lavora con pedali e loop station per “montare” in diretta le sue composizioni, che sono spesso incentrate su mere distorsioni, accordi o singole note ripetute all’infinito, a volte con l’aggiunta di qualche leggera stratificazione. Componente melodica quasi nulla, siamo quasi sempre dalle parti del rumore e dell’atonalità, ingredienti che rendono quella di Dorji una proposta non solo ostica ma anche riservata ad ascoltatori esperti e selezionati. Proprio per questo stupisce l’attenzione pressoché totale con cui i presenti seguono l’esibizione, e devo ammettere che anch’io, nonostante la sua musica sia decisamente estrema anche per me, dopo un po’ comincio ad abituarmi e riesco anche a godere di alcuni passaggi particolarmente suggestivi.

 

L’ingresso degli headliner è accompagnato come al solito da un Ambient soffuso ma incalzante, con i proiettori a bobina che si accendono e lo schermo sullo sfondo che inizia a mostrare l’impronta della pellicola. Salgono sul palco uno a uno e prendono posizione lentamente, come se stessero già immedesimati nei tempi dilatati di cui necessitano le loro creazioni per prendere forma e svilupparsi.

Quel che affascina dell’ensemble canadese è esattamente questo, che le loro canzoni prendono l’avvio da un nucleo melodico essenziale, che viene reiterato per quanto più tempo possibile, stratificandolo sempre di più con le chitarre, facendo crescere gradualmente la sezione ritmica fino all’esplosione finale, con l’intero gruppo che a questo punto suona a briglie sciolte in una deflagrazione di volumi. Dietro di loro, nel frattempo, passano immagini di rivolte urbane, architetture post industriali, periferie degradate e qualche piccolo squarcio di bellezza naturale. C’è un messaggio politico forte, dietro questo accostamento di musica e immagini, ma non ci vengono mai dati troppi strumenti per decifrarlo, se non i titoli dei brani e le suggestioni che di volta in volta le composizioni proposte tendono ad evocare.

Questo è il modo preferito che il gruppo ha di comunicare, la musica e le immagini costantemente in dialogo tra loro (i due proiezionisti Karl Lemieux e Philippe Leonard sono a tutti gli effetti membri del collettivo), costantemente in primo piano, al punto da inglobare totalmente l’aspetto puramente scenico (anche questa sera suonano praticamente senza luci, i tre chitarristi sono seduti e per quel poco che è dato di scorgere di tutti loro, il look e l’aspetto sono totalmente anonimi).

In uno scenario del genere, di fronte ad un pubblico completamente rapito (per una volta non c’è bisogno di lamentarsi di chi parla durante i concerti) assistiamo per un’ora e tre quarti ad una sorta di rappresentazione della fine della civiltà occidentale, a musica suonata da musicisti completamente “in the zone”, in totale simbiosi con la propria creazione artistica. Ruolo importante per la violinista Sophie Trudeau, fondamentale nel dettare tempi e modi dei vari pezzi, oltre che il suo strumento è il principale responsabile dei temi portanti dei vari brani. Accanto a lei il bassista Mauro Pezzente dirige una sezione ritmica composta da due batterie e da un altro basso (quello di Thierry Amar, che in più di un’occasione utilizza il contrabbasso) che quando opera a pieni giri non lascia scampo a nessuno. Bellissimo anche il modo in cui le tre chitarre di Michael Moya, Efrim Menuck e David Bryant interagiscono tra loro a ricamare le tessiture armoniche dei brani.

 

Variazioni impercettibili, tanta ripetizione, l’ondeggiare suadente delle note che si trasforma gradualmente in un ritmo ossessivo, il concerto è un’unica ininterrotta sinfonia del declino, con una parte iniziale all’insegna degli ultimi lavori, l’accoppiata “Job’s Lament”/First of the Last Glaciers” a dettare il mood, la pazzesca suite “Bosses Hang” a costituire probabilmente il momento più intenso, prima di un’altra tranche del nuovo album rappresentata da “Fire At Static Valley” e “Cliffs Gaze”. Nel finale, due vecchi episodi come “World Police and Friendly Fire” ed una monumentale “Rockets Fall On Rocket Falls”, ipnotica e magnifica, con le immagini di una fabbrica in fiamme a dipingere un quadro di affascinante distruzione. A chiudere, una coda di Drone Music da cinque e passa minuti, che continua ben oltre il momento in cui i nostri, uno per volta ed accennando appena un timido saluto, hanno lasciato il palco.

Ancora una volta alle soglie della perfezione, uno di quei gruppi che si potrebbero veder suonare ogni sera senza mai stancarsi. Speriamo di poterceli permettere anche in futuro.