Ci sono due interessanti considerazioni che si potrebbero fare sul concerto dei Goat a Torino. La prima è che anche in Italia si può registrare un sold out per una band che suona musica non propriamente fruibile alle masse (per utilizzare un eufemismo); la seconda, diretta conseguenza della prima, è che allora, se le cose stanno così, si potrebbe iniziare ad essere più coraggiosi (parlo di promoter e agenzie varie) e provare ad investire maggiormente in un mercato che sì, rimarrà sempre secondario rispetto alle principali nazioni europee, ma forse contiene un margine di allargamento che non avevamo previsto.
Stiamo parlando di Torino, che è città notoriamente attentissima agli eventi musicali “indipendenti”; parliamo dei Magazzini sul Po, un locale storico, erede dell’ancor più storico Giancarlo, in zona Murazzi, che negli anni ha visto una programmazione vivace e spesso controcorrente. Stiamo parlando di TUM, collettivo culturale attivissimo, che è dietro anche all’organizzazione del celebre Jazz is Dead. Insomma, c’erano tutti gli ingredienti perché potesse essere una serata di successo, ma quando parliamo di eventi dal vivo in Italia non si può mai dare niente per scontato.
Certo, i Magazzini hanno una capienza molto ridotta (200 posti, non di più) ma vederli esauriti praticamente già in prevendita, oltretutto per una band dalla proposta molto meno che immediata, è comunque un successo che è giusto menzionare, consci tuttavia che la strada da percorrere è ancora molto lunga.
I Goat (da non confondere con gli omonimi e più celebri colleghi svedesi) vengono dal Giappone e hanno infranto un grande tabù della nostra epoca, quello per cui per esistere bisogna per forza essere presenti sui servizi streaming. Esistono su Bandcamp, certo, e da lì vendono il merchandising, ma un ascolto illimitato e gratuito della loro musica ad oggi non si può fare. Ma c’è di più: Joy in Fear, il nuovo disco uscito in questi giorni, non si trova neppure su questa piattaforma. Esiste solo in formato fisico e per trovarlo bisogna andare ai concerti, perché hanno chiarito che non sarà venduto da nessun’altra parte.
Roba d’altri tempi, decisamente. E quando, prima dell’inizio del concerto, mi dirigo al banchetto per comprarlo, notando un po’ deluso la spartanissima qualità della confezione (una copertina con i titoli e i credits stampati sul retro e nulla più) la delusione lascia gradualmente il posto ad una consapevolezza nuova: per una volta, a venire pagata è davvero la musica nella sua nuda essenza, cosa che noi, ubriacati ed intontiti da milioni di ore di ascolto bulimico, avevamo completamente dimenticato. Vuoi sentire queste canzoni? Comprale o scaricale su Soulseek (che sì, è ancora vivo e vegeto, nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo). Bentornati nel 2004, insomma. Abbiamo bisogno di fare un passo indietro per riguadagnare il nostro rapporto con la musica? Probabilmente sì. Incamminandomi verso la macchina, con la mia bustina di cartone stretta tra le mani, pensavo che un recupero della dimensione fisica dei nostri ascolti non potrebbe che farci bene.
Il concerto, in sé, è stato bellissimo, uno dei migliori dell’anno e lo dico senza ombra di retorica. I Goat suonano da paura e vederli in azione sul palco è un’esperienza anche visiva indimenticabile, che permette di comprendere molto di più delle loro dinamiche e interazioni, rispetto a quanto si possa fare ascoltando i dischi.
Batteria (Takafumi Okada) e percussioni (Rai Tateishi) costituiscono il fulcro del sound, che ha il punto di partenza nel motorik di scuola Kraut ma si evolve poi a disegnare poliritmi ossessivi e glaciali, dove a farla da padrone è la ripetizione, inquadrata in geometrie rigide e a tratti asettiche, rinforzate dal basso potente di Atsumi Tagami.
A livello melodico gli ingredienti sono pochissimi: c’è la chitarra di Koshiro Hino, responsabile unico della scrittura dei brani, che il più delle volte segue la ritmica, concedendosi solo sporadicamente fraseggi che abbandonano il pattern principale; c’è poi il sassofono di Akihiko Ando, con la sua pittoresca trovata di una bottiglietta d’acqua sistemata nella campana, presumo per rendere più ovattato il suono, che viene comunque trattato anche da tutta una serie di effetti comandati a pedaliera. Anche questo strumento, che pure si potrebbe definire “solista” all’interno della musica dei giapponesi, si stacca in realtà molto raramente dall’andamento collettivo del brano, producendosi spesso in suoni cupi e strozzati; quando prende il volo, le grida dissonanti al confine col Free Jazz, abilmente sostenute dalla potenza della sezione ritmica, sono una delle cose più belle del concerto. C’è poi un momento in cui Rai Tateishi abbandona le percussioni per dedicarsi ai flauti, dando così maggior respiro nonché uno sprazzo di melodia in più alla proposta.
Occorre comunque dire che, rispetto ai due precedenti dischi, martellanti e monolitici, questo nuovo album, la cui esecuzione costituisce di fatto la totalità dei sessanta minuti scarsi del set, suona decisamente più variegato, ideale punto di partenza, quindi, per chi volesse avvicinarsi per la prima volta alla loro musica.
Sul palco i cinque sono impassibili: non un sorriso, non un gesto fuori posto, concentratissimi sui loro strumenti, non si guardano praticamente mai (se non Okada e Tateishi all’inizio di ogni brano) ma suonano come un corpo unico, tenendo a mente le battute e rispettando rigidamente le strutture, al punto che non hanno mai bisogno di segnalarsi la fine di ogni pezzo.
C’è un non so che di spietatezza glaciale nei ritmi e nelle figure geometriche da loro disegnate, quasi fosse la trasposizione in musica di quel toyotismo che proprio dalla loro patria ha preso il via.
Quando finiscono è un tripudio di ovazioni e applausi, il pubblico invoca a gran voce il bis e Koshiro Hino, per la prima volta accennando un sorriso, ringrazia i presenti e confessa che non hanno più brani da suonare, per cui il concerto è finito.
Un grazie davvero a TUM per avere avuto il coraggio di osare e di portarci in Italia questa band. E’ andata benissimo per cui potrebbe anche essere lecito sperare che torneranno. Senza esagerare, abbiamo avuto forse una prova che c’è del margine per essere un po’ più ottimisti sul futuro della musica dal vivo nel nostro paese.