Quando, negli Stati Uniti, a metà degli anni ’90, prende piede il termine Americana per indicare il rinnovato interesse artistico verso il country rock tradizionale, i Jayhawks (insieme agli Uncle Tupelo) possono essere considerati, e a buon diritto, degli antesignani del genere. La band, infatti, ha già alle spalle diversi anni di attività e svariati dischi, attraverso i quali, con gusto personale, ha tracciato quelle che saranno le coordinate espressive del movimento. Le canzoni dei Jayhawks germogliano, infatti, in un retroterra tradizionale i cui punti di riferimento sono Gram Parsons, Neil Young e i Byrds, e riportano al centro della scena la California anni ’70, rispondendo con una ventata di solare ottimismo alle istanze nichiliste provenienti dalla rumorosa Seattle. Il loro suono però possiede tratti distintivi ben marcati, che lo rendono immediatamente riconoscibile: da un lato, rielaborano con efficacia le ariose melodie vocali che connotavano geneticamente la scrittura dei Crosby, Stills & Nash; dall’altro, gettano più di uno sguardo oltreoceano e agli anni ‘60, incorporando fra le fonti d’ispirazione anche i Beatles. Circostanza, questa, che porterà spesso la loro idea di roots music a lambire i confine del pop, facendo parlare dei due leader, Mark Olson e Gary Louris, come di una sorta di Lennon & McCartney del Midwest. Ma andiamo con ordine.
Il gruppo viene formato nel 1985 a Minneapolis (Minnesota) da Mark Olson (chitarra e voce), Norm Rogers (batteria) e Marc Perlman (prima chitarra e poi basso), a cui si aggiunge, quasi subito, Gary Louris (chitarra e voce), un trentenne proveniente da Toledo (Ohio) che si è approcciato alla musica, passando intere giornate a suonare il pianoforte. Louris e Olson familiarizzano presto, si sono simpatici, si stimano e hanno la medesima visone musicale. Da ultimo arrivato, Louris mantiene un basso profilo, lasciando a Olson (ai tempi autore di tutte le canzoni), una leadership che però, ben presto, andrà a condividere. Il primo omonimo disco (The Jayhawks del 1986 è stato praticamente introvabile fino alla ristampa avvenuta nel 2010), viene prodotto da una piccola casa discografia e, se da un lato denota una creatività ancora acerba e troppo legata alla tradizione country, dall’altro evidenzia un intesa perfetta fra i due chitarristi, bravissimi ad armonizzare i rispettivi timbri vocali, che diventeranno ben presto il segno distintivo delle loro canzoni. Nonostante il buon successo dell’album a livello locale, nessuna major sembra però interessata al sound della band. Nel frattempo, Norm Rogers se ne va (viene rimpiazzato da Thad Spencer) e Gary Louris subisce un grave incidente stradale che lo terrà fuori dai giochi per parecchio tempo. Le canzoni del successivo Blue Earth (1989), rilasciato dalla Twin Tone Records, sono quasi tutte a firma del solo Olson, e il contributo di Louris si limita alla registrazione delle parti vocali e di chitarra. Acustico e scarno negli arrangiamenti, Blue Earth mette in bella evidenza quel tipico suono Jayhawks, qui ancora in stato embrionale, che dall’album successivo prenderà forma compiuta: un country rock che parte dalla tradizione ma capace di creative impennate pop, che rendono le canzoni agili, moderne, deliziosamente melodiche. Tra le piccole gemme che impreziosiscono l’album vale la pena ricordare Two Angels, che diventerà in seguito un classico della band, e l’arpeggio paradisiaco di Commonplace Street, mirabile esempio di fusione fra armonie roots e distorsioni rock.
Se il successo commerciale è ancora ben lontano dall’arrivare, fra gli addetti ai lavori il nome dei Jayhawks, però, inizia a girare con interesse, tanto che, all’inizio degli anni ’90 vengono notati da Rick Rubin, un giovane produttore newyorkese, che si è fatto le ossa con i Run DMC e che, in quel momento, è impegnato a fare le fortune della band trash metal degli Slayer. Rubin mette sotto contratto i Jayhawks per la sua Def American Recordings, proprio mentre la band sta perdendo l’ennesimo batterista (entra Ken Callahan al posto di Thad Spencer). Il cambio di line up, tuttavia, non lascia strascichi e grazie a un rinnovato entusiasmo e alla supervisione di Rubin, il gruppo di Minneapolis firma il suo disco più bello, Hollywood Town Hall (1992). Il momento storico per la musica a stelle e strisce è cruciale: nel giro di un paio d’anni, oltre al capolavoro dei Jayhawks, vengono pubblicati No Depression degli Uncle Tupelo (1990), August And Everything After dei Counting Crows (1993) e The Southern Harmony And Musical Companion dei Black Crowes (1992). Il rinnovamento, insomma, ha inizio, e dalla Georgia al Midwest, il classico suono americano torna a far parlare di sé. In Hollywood Town Hall l’attenzione verso le radici è palese fin dalla copertina, che cita come simbolo di continuità il primo album dei Crosby, Stills & Nash e un vecchio divano. Le sonorità chiamano alla mente i Byrds, i citati CS&N, Gram Parsons e The Band; eppure il suono, seppur radicato, si tinteggia di cromatismi pop mai zuccherini (ecco per la prima volta il sentore beatlesiano) e viene impreziosito da l’interplay vocale fra Olson e Louris (sorretto da controcanti e cori) mai così perfetto, raffinato e intenso. Vengono riletti superbamente due brani da Blue Earth (la già citata Two Angels e Martin’s Song), ma il meglio, tra le tante splendide canzoni, arriva con la ballata folk di Waiting For the Sun (la prima hit del gruppo), la neilyounghiana Crowded In The Wings e la superba Clouds, che dimostra una volta di più quanto la miglior freccia all’arco dei Jayhawks sia rappresentata soprattutto dalla capacità di creare melodie senza tempo. In cabina di regia si siede George Drakoulias (Black Crowes), e l’album vede fra gli ospiti due leggendari pianisti: Nicky Hopkins (The Rolling Stones, The Jefferson Airplane) e Benmont Tench (Tom Petty and The Heartbreakers).
Il successivo Tomorrow The Green Grass (1995) ripropone la formula del suo predecessore, ma gli spigoli più marcatamente rock vengono smussati in favore di una scrittura ancora più attenta alle soluzioni melodiche. Entrano in pianta stabile nella line up un nuovo, l’ennesimo, batterista, Don Heffington, e la tastierista Karen Grotberg; i Jayhawks, inoltre, si avvalgono in sala di registrazione della presenza di alcuni ospiti, tra cui Sharleen Spiteri alle voci, Lili Hayden e Tammy Rogers agli archi, e soprattutto Victoria Williams, apprezzata songwriter della scena folk contemporanea, nel frattempo convolata a nozze con Mark Olson. Questi estemporanei innesti contribuiscono a dare un respiro orchestrale agli arrangiamenti e a completare il processo di maturazione che, tuttavia, non porta ai Jayhawks il successo commerciale sperato e l’auspicata consacrazione mediatica. Peccato, perché in Tomorrow The Green Grass le belle canzoni si sprecano: il rapporto quasi simbiotico di Olson e Louris rende telepatico l’interplay fra chitarra elettrica e acustica, e le due voci, sincronizzate al secondo, continuano a tinteggiare melodie in cui il rigido inverno del Minnesota lascia il posto al tepore di un sole primaverile. L’iniziale Blue prende letteralmente il volo grazie agli archi arrangiati dal maestro Paul Buckmaster, Two Hearts cita i REM più morbidi, Bad Times è l’inusuale cover in chiave harrisoniana di una ruvida ballad dei Grand Funk Railroad, mentre I’d Run Away sboccia in un ritornello di accattivante leggerezza che lascia a bocca aperta anche l’ascoltatore più intransigente. Il disco convince nuovamente la stampa specializzata per la facilità disarmante con cui le composizioni arrivano al cuore dell’ascoltatore, senza, tuttavia, mai sbracare nel melenso. Eppure, come si diceva, l’album vende bene, ma non porta quei riscontri di vendite che la band aveva sperato.
Qualcosa, poi, all’interno del gruppo si è incrinato: Olson vorrebbe dare un taglio più decisamente country rock alla musica dei Jayhawks, Louris invece preferirebbe continuare a battere una strada più marcatamente pop. Olson, quindi, se ne va, per divergenze artistiche, ma anche perché vuole stare vicino all’amata moglie, Victoria Williams, da qualche tempo affetta da sclerosi multipla. Una brutta botta per la band, che arriva a due passi dallo scioglimento. Louris, però, tiene duro e prende saldamente in mano il progetto, rimescolando di nuovo le carte e modificando, un’altra volta, la formazione. Nella line up, entra, infatti, Tim O' Reagan, batterista e cantante che, da quel momento in poi, assieme a Louris e Perlman, farà parte del cuore pulsante della band. Ai tre e a Karen Grotberg (inamovibile dalle sue tastiere) si aggiungono anche il chitarrista Kraig Johnson e Jessy Greene, che cura le partiture d’archi. Il risultato è Sound Of Lies (1997), un disco poco sentito e molto leggero, che fa storcere il naso ai fans della prima ora. I riempitivi sono molti, e la mano di Louris, con la sua passione mai celata per il quartetto di Liverpool e il pop britannico (The Man Who Love The Life è bowiana fin dal titolo), si fa sentire pesantemente. Con la sola eccezione della bellissima Trouble, e dei barbagli glam della convincente Big Star, i brani che compongono l’album, pur denotando la classe e l’estro melodico di Louris, appaiono fiacchi e privi di quel fascino a cui contribuiva la mediazione rock di Olson.
Il successivo Smile (2000), nonostante la produzione del guru Bob Ezrin (Kiss, Alice Cooper, Peter Gabriel), è il punto più basso della carriera dei Jayhawks, ormai indirizzati verso un pop molto radiofonico, laccato, sovrabbondante, che imbocca la strada del ridicolo, con le ritmiche dance di Queen Of The World e quelle hip hop di Somewhere in Ohio. Il disco, però, è ben accolto dal pubblico e ha un ottimo ritorno di vendite (il singolo, I'm Gonna Make You Love Me, entra in classifica), a dispetto di una carenza di qualità e intuizioni creative. Il gruppo, almeno da un punto di vista compositivo, mostra la corda e sembra arrivato al capolinea. Ma tre anni dopo, nel 2003, Rick Rubin interviene personalmente per raddrizzare le sorti della band. Mette alla produzione l’inglese Ethan Johns (Kings Of Leon, Laura Marling, The Vaccines, etc) che va a recuperare il suono degli esordi e riporta alla luce i fasti di Hollywood Town Hall. Alla riuscita dell’album, peraltro, contribuisce anche il nuovo innesto del duttile polistrumentista, Stephen McCarthy. Il disco, intitolato Rainy Day Music (2003) è bello, suonato meravigliosamente bene e finalmente di nuovo ricco di quella vena creativa che aveva contraddistinto le cose migliori di Louris. La slide di Madman, la byrdsiana Stumbling Through The Dark, l’immensa e commovente Will I See You In Heaven, la soave All The Righ Reasons restituiscono ai fans un gruppo nuovamente in salute e grintoso. Tanto da perdonare a Louris il plagio di Space Oddity di Bowie, che trova nuova vita nella pasticciata Don’t Let The World Get In Your Way. Nonostante il riavvicinamento tra Louris e Olson, sancito dall’acustico e affascinante Ready For the Flood (2009), bisognerà aspettare altri otto anni prima che veda la luce il nuovo disco dei Jayhawks, e cioè Mockingbird Time (2011). Una scrittura cristallina, le tasche piene di melodie di facile presa, l’incastro assolutamente perfetto di due voci che sanno toccare il cuore e l’interplay sincronizzato fra chitarre elettriche e acustiche, sono di nuovo le caratteristiche essenziali di un filotto di quattordici canzoni quasi tutte di livello. Che l’ispirazione sia alta, lo si capisce subito dall’iniziale Hide Your Colors, luminoso pop rock in chiave harrisoniana che nel finale vira inaspettatamente verso il soul. Con Tiny Arrows i Jayhawks costruiscono un monumento west coast che non avrebbe sfigurato in Deja Vù dei CS&N (acustica, elettrica e slide riempiono meravigliosamente ogni angolo della canzone). Closer To Your Side e, soprattutto, l’ispiratissima She Walks In So Many Ways (una vera delizia per le orecchie) citano smaccate e ruffiane i cromatismi chitarristici dei migliori Byrds, mentre High Water Blues è un salto a ritroso nel tempo, alla San Francisco dei Jefferson Airplane. La ballata che dà il titolo al disco è un agro-dolce richiamo ai REM più acustici, e nonostante un mezzo passo falso (l’incolore Guilder Annie), in scaletta spunta un altro lento incredibile, Black Eyed Susan, che evoca Dylan, cita Parsons e chiude in un crescendo di tensione tra drammatiche note di violino. Mockingbird Time non solo segna un ritorno atteso da troppo tempo, ma ci riconsegna un gruppo in palla come ai tempi di Tomorrow The Green Grass. Paging Mr. Proust (2016) esce a distanza di cinque anni dal suo predecessore e segna l’ennesimo allontanamento di Olson, che evidentemente ha ormai preso la band per un autobus da utilizzare solo per brevi spostamenti. Resta a fianco di Louris il fido bassista Marc Pearlman, l’unico altro membro originario del gruppo, e in console, a produrre, oltre a Louris vanno Peter Buck (Rem) e Tucker Martine (The Decemberists, Sufjan Stevens, Laura Veirs, etc). Un parterre de roi, quindi, di tutto rispetto, ma che, alla fine dei conti, finisce per creare un po’ di confusione. Ed è proprio questo il maggior limite di Paging Mr. Proust, e cioè che suona poco coeso, ondivago, aperto ad azzardi (e questo è un bene) che però non sembrano portare da nessuna parte né riescono a dare una nuova impronta al sound o a spingere verso intuizioni creative, stranianti, ma originali. Quando Louris fa il suo, pur replicandosi, trova di nuovo la magia dei bei tempi andati. La solare Quiet Corners & Empty Spaces, che apre il disco, è, ad esempio, la summa del Jayhawks pensiero, si abbevera alla fonte di Tomorrow The Green Grass e gioca le sue carte con un ritornello irresistibile e il misurato interplay fra elettrica e acustica. La successiva Lost The Summer cambia registro e vira verso sonorità decisamente più (glam?) rock, ma convince pochissimo. A volte la penna di Louris è calda e allora tira fuori cose inusuali, ma di grande effetto, come in Lovers of the Sun, esatto punto di fusione in cui George Harrison incontra i Velvet Underground (il ritornello del brano nasce per filiazione diretta da Femme Fatale di Lou Reed). Come si diceva, però, il disco procede altalenante: Ace, ad esempio, è un perniciosissimo esperimento in bilico fra noise ed elettronica, che puzza di filler dopo poche note, The Dust Of Long Dead - Star è un tentativo un po’ imbolsito di replicare i Rem, e Comeback Kids, che non è nemmeno bruttissima, suona però come un indie rock targato Spoon, quanto di più lontano possa esserci, a parte il metal, dalla musica dei Jayhawks. Fortunatamente, qui e là, i conti tornano, quando Louris torna al sole della California, sfoderando la splendida Isabel’s Daughter, o quando si guarda allo specchio, ricordandosi di Hollywood Town Hall, e ci regala The Devil Is In Her Eyes, scontatissima eppure deliziosa. Paging Mr. Proust, in definitiva, risente ancora una volta della mancanza di Olson, la cui sola presenza è probabilmente un pungolo per Louris, e la cui scrittura, più legata al roots, riesce a mantenere certe bizzarrie del compagno nell’alveo del buon senso. Se da un lato, questa nuova prova è la conferma che in pentola qualcosa ancora sta bollendo, dall’altro, però, la scaletta del disco riporta i Jayhawks ai tempi del controverso Smile, quando Louris le provava tutte, senza azzeccarne molte. Qui, almeno, qualche buona canzone c’è. Per il meglio, dobbiamo aspettare che Olson si decida a tornare.