É vero: se non esistesse, Ringo Starr andrebbe per forza di cose inventato. Autore dei più divertenti calembour beatlesiani (le sue espressioni «A hard day’s night» e «Eight days a week» sono ormai leggenda) e dell’esclamazione più incredibile che una canzone dei Fab Four abbia mai ospitato («I’ve got blisters on my fingers» alla fine di “Helter Skelter”), Richard Henry Starkey è allo stesso tempo una vera e propria leggenda del Rock e un uomo con i piedi per terra, mai dimentico di essere cresciuto tra mille difficoltà nella Liverpool più povera. Come ha giustamente scritto Rolling Stone, come Ringo Starr «nessuno ha attraversato gli anni più intensi, profondi e artisticamente travolgenti della cultura Pop rimanendo così sereno e puro di fronte alle sue tragedie, alle sue contraddizioni e ai suoi eccessi, fedele allo spirito di quella musica che gli ha cambiato la vita, e con la quale lui e i suoi amici di Liverpool hanno cambiato il mondo».
Gli eccessi degli anni Settanta, però, presentano il conto e gli anni Ottanta sono per l’ex-Beatle una sorta di nadir. L’inaspettata rinascita avviene nel 1992 con Time Take Time, prodotto da Jeff Lynne e Don Was, i quali decidono saggiamente di utilizzare, debitamente aggiornata, la formula vincente di Ringo e Goodnight Vienna: buone canzoni, ottime performance strumentali, produzione attenta, citazionismo spinto, sound che pesca dal periodo Beatles 1967/70 e, soprattutto, tanti amici. Da lì in poi, ogni disco di Ringo Starr è più o meno simile: nessuno è imprescindibile, nessuno ha particolari ambizioni, ma ognuno ha la propria peculiarità, il proprio carattere distintivo, prodotti di un artigiano del Rock che mette davanti a tutto il divertimento, il piacere di suonare, il raccontarsi senza però prendersi troppo sul serio.
Anche Give More Love si muove sulle stesse coordinate dei suoi predecessori. Album fuori dal tempo, impreziosito da ospiti incredibili (Paul McCartney, Joe Walsh, Steve Lukather, Don Was, Dave Stewart, Benmont Tench, Nathan East, Thimoty B. Schmith – solo Ringo Starr può avere una All-Star Band del genere al suo servizio), è un amabile esempio di Pop, con una produzione pulita che fa risaltare le radici saldamente ancorate nel Rock e nel Country delle vari canzoni – anche se non manca una spruzzatina di Arena Rock in alcune tracce.
Delle dieci canzoni inedite, spiccano il Rock diretto e senza fronzoli di “We’re on the Road Again” e “Show Me the Way” (entrambe con Paul McCartney al basso), il Power Pop di “Electricity” (che si va ad aggiungere a “Liverpool 8”, “The Other Side of Liverpool”, “In Liverpool” e “Rory and the Hurricanes”, presenti nei precedenti album e che assieme formano una sorta di autobiografia in musica di Ringo, nella quale racconta la sua infanzia e il periodo pre-Beatles), il bel Country di “Standing Still” e “So Wrong for So Long” e il Rockabilly di “Shake it Up”. Sono proprio queste ultime tre canzoni, provenienti dalle session tenute a Nashville da Ringo assieme a Dave Stewart, le più interessanti di tutte. L’ex-Fab Four dimostra di avere la voce e l’attitudine giusti e risulta credibile come interprete di questa tipologia di repertorio. Sarebbe interessante vederlo alle prese con un album composto interamente da pezzi di questo tipo: una sorta di ideale chiusura di un percorso iniziato oltre cinquant’anni fa quando, con i Beatles, incise il Rockabilly di “Honey Don’t” di Carl Perkins, il Country di “Act Naturaly” di Johnny Russell e Voni Morrison e “Don’t Pass Me By”, la sua prima canzone come autore unico. Chissà che il vedere un Ringo Starr fuori dalla sua comfort zone non possa portare a qualche piacevole sorpresa. Conoscendolo, non è del tutto escluso.
[La Deluxe Edition dell’album include quattro bonus track, nuove versioni di classici del repertorio di Ringo Starr. In “Back Off Bugaloo” fa capolino la sempre splendida chitarra slide di Joe Walsh, mentre “Photograph” (probabilmente la più bella canzone del Ringo solista, scritta assieme a George Harrison) è rinfrescata dall’arrangiamento in chiave Indie-Folk a opera dei Vandaveer.]