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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
23/10/2023
Le interviste di Loudd
Giovanni Baglioni: il tempo, il suono, la tecnica e quello che ne resta
"Vorrei Bastasse" è il nuovo lavoro di Giovanni Baglioni, un disco che riflette su questo nostro tempo "confezionato" realizzando un album basato esclusivamente sulla sua chitarra e sul suo desiderio di trasmettere un messaggio.

“Col tempo ho un rapporto non facile. Il tempo è inesorabile nel suo scorrere. A noi rimane solo la possibilità e la responsabilità, non da poco, di determinare come impiegarlo e dunque come viverlo”. (G. Baglioni)

 

Vorrei Bastasse è un disco che chi scrive ha voluto metabolizzare e verso il quale è servito tempo anche per colpa di antichi pregiudizi, quelli verso chi sulle spalle porta un cognome ingombrante, che apre porte e spalanca stendardi. Forse non è un caso che questo album porti un titolo altrettanto pesante di significato e di vita: Vorrei bastasse. Perché non basta aver dentro qualcosa, dirlo e saperlo dire, oggi che siamo scheletri senza carne, schiavi delle maschere (anzi delle confezioni), ingranaggi automatici di automatici sistemi di luce. Questo disco, con tutte le criticità e i preziosi del caso, “ignora con rispetto” il cognome che si porta dietro, le luci di scena che inevitabilmente si accendono, ignora le discese che per noi altri sono salite, ignora tutto e pensa al suono della sua chitarra che sola deve bastarci.

Vorrei bastasse in effetti basta, anche se la chiusa del viaggio poi si appoggia anche ad un pianoforte giocandoci assieme, in realtà la sua chitarra basta e non chiede altro. Forse troppo pomposa di tecniche ancora acerbe nei contorni, forse innestata in una produzione che restituisce un suono che avrei voluto più ampio, solenne nella sua spazialità, nei bassi come nelle esecuzioni. Non mi fa impazzire la produzione, forse perchè non mi fa mai impazzire lo sfarzo in genere e sono un seguace della semplicità, ma al netto di ciò è un ascolto che oltrepassa l’estetica e le confezioni, è diviene un disco confessione, manifesto, celebrativo della semplicità stessa di titolo che porta: vorrei bastasse. Mi ha colpito profondamente.

Solo dopo questa battaglia interiore penso di aver saputo ascoltare davvero questo lungo disco di Giovanni Baglioni. Lo accolgo con lo stupore che si prova di fronte alla verità e alla forza che spesso si ha di dentro quando si chiede soltanto di essere riconosciuti alla luce del sole, senza nessun riflettore e men che meno confezioni laccate. È solo Giovanni Baglioni. Solo con la sua chitarra. Non importa il resto. E così facendo, questo disco suona di vita.

 

 

Il titolo da cui partire sembra una dichiarazione d’intenti spigolosa contro questo tempo estetico che viviamo. Vorresti bastasse. Ma?

Ho sempre mal sopportato ciò che percepivo come un’ingiustizia o anche solo una stortura e sono spesso stato incline a rivoltarmici contro. Di qui l’aspetto polemico, perché dispiaciuto, che traspare dal titolo. Magari fosse un tempo estetico, almeno guarderebbe alla forma, che in fondo è sostanza; è piuttosto un tempo confuso e distratto. Il problema è che qui non si guarda più quasi alla cosa in sé, quindi neanche alla forma, ma alla confezione.

 

Un secondo disco che significa anche la responsabilità di una conferma o di una evoluzione; se posso chiamarti ad una verità personale, che responsabilità gli stai affidando?

Esattamente quella espressa nella domanda. E penso l’abbia raccolta con successo.

 

Il tempo è strumento di riflessione come di attese, di ansie e rincorse. Dentro queste composizioni il tempo è sempre assai “educato”, le oscillazioni sembrano quasi solo rimedi estetici più che forme narrative, ma forse mi sbaglio. Che rapporto hai col tempo?

Sono presenti entrambe le tipologie di utilizzo della variazione del tempo. In vari momenti sono dettati da intenzioni interpretative, ma ad esempio in “Toro seduto ascendente leone” e in “Emisferi” ci sono dei netti cambi di metronomo che hanno una valenza assolutamente narrativa. Col tempo ho un rapporto non facile. Il tempo è inesorabile nel suo scorrere. A noi rimane solo la possibilità e la responsabilità, non da poco, di determinare come impiegarlo e dunque come viverlo.

 

Estetica che significa anche dinamiche di mercificazione industriale, comodità mediatiche e bellezza di largo consumo. Poi il contenuto dentro i ricami delle bellezze particolari, dentro la fastidiosissima fatica di doversi sforzare ad ascoltare, capire o quanto meno farne esperienza. Questo disco sembra un manifesto che lotta contro la superficialità di questo tempo. La tua personalissima soluzione? Un artista di concetto e di contenuto, come sopravvive oggi?

La mia “soluzione” è difendere quanto più possibile la nostra integrità dai compromessi, pur in parte necessari, che snaturano il nostro modo di essere, di intendere ciò che facciamo, il messaggio che vogliamo comunicare.

 

Tra queste 8 tracce esiste un brano che dentro il suo DNA racchiude tutto questo?

Nessuno in particolare, o forse un po’ tutti nella misura in cui non sono dettati nelle loro caratteristiche da particolari furberie o ottiche commerciali.

 

Dall’altro estremo, parlando di casualità e di estetiche leggere, penso di collocare una composizione come “SkArpeggio” in un'estetica semplice ma tutt’altro che banale. Che momento del disco rappresenta? Evasione o incontro con un linguaggio leggero e maggiormente condiviso?

In realtà nulla del disco vuole essere ermetico. Cerco però di rappresentare sempre atmosfere, emozioni o storie non monocorde, ma che piuttosto si articolano, mostrano le diverse facce e la complessità che ogni atmosfera, emozione e storia hanno. “SkArpeggio” è d’altro canto sicuramente il momento più scanzonato dell’album, non mancando però anch’esso di una parte più “sofferta” che poi si risolve nella spensieratezza iniziale attraverso la citazione del tema circense.

 

Tecnica contro dialogo. Se vuoi restiamo sullo stesso concetto. Domanda un poco spigolosa anche per sapere la tua scuola di pensiero: questo disco mette in scena una tecnica importante, anche sfacciatamente “visibile” al primo ascolto. Non pensi che copra pericolosamente il contenuto del dialogo che in fondo è l’anima del messaggio? Non pensi che, proprio perché vittime di un pubblico spesso superficiale, ci si “ ubriachi” di vezzi estetici l’ascolto lasciando in ombra il suo messaggio? Forse, penso io, meno artifici (che sicuramente sono utili alla scena e allo spettacolo) ma più vicinanza con l’espressione e il messaggio?

Penso che il fumo sia un inganno solo se poi l’arrosto non c’è. Dunque non c’è necessariamente reciproca esclusione tra peso della forma e peso della sostanza. Un’estetica pirotecnica, in presenza poi di un sottostante messaggio, può essere il gancio per catturare quell’inclinazione necessaria a un ascolto un po’ distratto per condurlo poi al contenuto.

 

Per me il momento più alto di questo disco è “Il giro del mondo in 80 Mondi”. Dentro ripesco l’uomo e le sue diversità, ma ripesco anche il tempo dentro cui veder cambiare abitudini e costumi. Oriente ma anche occidente, Italia ma anche resto del mondo. Allegoricamente ti chiedo: che cosa hai trovato in questo giro di mondi? O meglio: che cosa hai voluto fotografare col suono?

Nella domanda c’è la risposta. E questo non può che farmi piacere.

 

Parliamo di questa copertina: posso dirti, in senso di complimento, che poco sembra combaciare col disco? Sembra quasi il volto di una statua alla deriva tra le onde del mare, ci leggo anche una quiete cullata da un mare calmo al tramonto, o un volto inanimato, perché? E perché sopra c’è luce e sotto l’oscurità? Forse sono solo mie chiavi di lettura inutili o forse tutto ha un senso.

In effetti non attiene al contenuto del disco. È più un manifesto del “come” vorrei che il contenuto di questo disco, ma anche molto di tutto questo comunicare che viene freneticamente riversato ovunque, arrivasse a destinazione. Con più calma, con più rispetto dell’interlocutore.

Riguardo il volto, è la rappresentazione della musica, della mia musica. Forse ci vedi la colpa di essere un po’ troppo posato, bello, statuario per l’appunto. Ma infondo è così che vedo e intendo una registrazione discografica: non una foto rubata, ma una minuziosamente pensata, studiata, eseguita.

 

“Emisferi” accoglie anche un pianoforte. In fondo lo chiedo spesso quando scruto dentro dischi di un solo strumento: una chitarra sola può bastare per te? O da “Emisferi” ci stai dicendo che inizi a sentire la necessità di altro per scrivere e raccontarci la tua musica?

Mi è già stata offerta una lettura simile da un caro e competente amico, ma personalmente non ho piena consapevolezza del significato, visto nell’ottica più ampia del mio percorso artistico, dell’aver introdotto un altro strumento. Ho sempre proceduto con una pianificazione che non guardasse troppo in avanti, ma piuttosto mosso da ciò che di volta in volta mi ha attirato, colpito, emozionato. Se basterà, o meno, ce lo dirà il tempo.