L’uscita del nuovo disco dei Murder Capital apre a due tipi di riflessione: come sempre è accaduto e sempre accadrà, la fase successiva all’esplosione di un trend ha normalmente a che fare con l’assestamento. Svanito l’effetto sorpresa, scemato nel nostro caso l’entusiasmo per l’ennesima versione dell’ennesima band che si ponga ad un ideale crocevia tra Fall, Magazine e Gang of Four, quello che resterà sarà racchiuso in una reale capacità di modellare la materia, di essere creativi senza per forza di cose avere ben chiari i propri riferimenti.
Detto in altri termini: di questa overdose di nuovo Post Punk o più semplicemente di “musica rumorosa ed inquieta con le chitarre in primo piano” sopravviveranno solo quegli esponenti che saranno in grado di non annoiare; cosa che, in fin dei conti, sarà possibile solo a chi possieda una personalità ed una individualità spiccata.
L’altra riflessione riguarda la scelta dei momenti: quelli in cui rimanere in silenzio e quelli in cui gridare ovunque la propria esistenza. Nella “società dell’accelerazione”, l’ho già scritto parecchie volte, sembra inconcepibile che si possano ancora attendere tre anni e mezzo per pubblicare un disco.
Tutto questo ci porta ai Murder Capital. Che quando esordivano, nell’agosto 2019, avevamo già individuato come molto di più di una delle tante band di una generazione che si era formata in ossequio ai santini di Mark E. Smith e Ian Curtis. When I Have Fears aveva già fatto capire di che pasta erano fatti: debutto clamoroso, dove la fisiologica componente derivativa incontrava una sbalorditiva fiducia nei propri mezzi.
Lo hanno pubblicato, sono andati in tour, si sono fermati. Niente ansia da prestazione, nessun complesso d’inferiorità nei confronti dei colleghi già affermati (Idles e Fontaines Dc su tutti) che approfittando della pandemia pubblicavano dischi a stretto giro. Anzi, James McGovern e compagni sono stati gli unici, non solo nella loro cerchia ma proprio in assoluto, a non farsi assolutamente mai vedere mentre il mondo era fermo in attesa di istruzioni. Né una diretta da casa, né un singolo a scopo benefico, né un concerto in streaming a pagamento. Nulla di nulla. A meno di non voler contare una striminzita session da tre brani per la BBC (tra cui anche un’interessante rilettura di “Cellophane” di FKA Twigs), troppo poco per poter dire che avessero bisogno di ammazzare il tempo.
La verità? Si sono presi il loro tempo. Hanno aspettato di avere qualche cosa di interessante da dire e, soprattutto, di avere le parole giuste per dirlo. “Avevamo bisogno di trovare il nostro sound” ha dichiarato recentemente McGovern, e la cosa fa impressione, se pensiamo a quanto già fossero mature le loro prime composizioni. Ovviamente oggi più di prima prendono le distanze dalla scena in cui sono stati giocoforza inseriti e, come i loro connazionali Fontaines Dc, fanno capire di essere in grado di esprimere un’identità propria.
Ascoltando Gigi’s Recovery, non si può che dar loro ragione. Frutto di un processo creativo particolarmente lungo e travagliato (hanno iniziato a maggio 2020, lo hanno finito otto mesi dopo ma i tipi della loro etichetta hanno detto che suonava troppo depresso, per cui lo hanno buttato via e ne hanno scritto un altro più o meno da zero, dopo essersi trasferiti a Londra per lavorare più intensamente), il sophomore degli irlandesi è la riprova che non avere fretta e non disdegnare un certo perfezionismo alla fine sono atteggiamenti che pagano.
Lo hanno descritto come un lavoro complessivamente meno cupo del predecessore ma forse non è quello il punto. Certo, ci sono canzoni come “Only Good Things”, “A Thousand Lies” e “We Had to Disappear” che contengono qualche apertura melodica in più e non suonano per forza come outtake dei Joy Division. La verità però è che i Murder Capital sono semplicemente andati oltre. Oltre la loro già enorme capacità di scrivere canzoni; oltre la disarmante facilità con cui riprendevano la tradizione e la riadattavano al presente; oltre la certosina precisione degli arrangiamenti, per cui con due o tre dettagli nel posto giusto erano in grado di svoltarti il pezzo. I Murder Capital sono andati oltre l’essere una giovane band con un esordio esplosivo in bacheca, e hanno realizzato un seguito che si muove in perfetta continuità e allo stesso tempo scombina le carte, assomigliando sempre a tante cose insieme ma allo stesso tempo muovendosi in una dimensione autenticamente personale. Tutto questo, si badi bene, avendo alle spalle una visione perfettamente realistica della situazione (“Abbiamo scritto un disco solo prima di questo, abbiamo detto ancora poche cose, potenzialmente ce ne sono ancora parecchie altre da dire”).
È un disco difficile, per nulla immediato, che ha a che fare con una fetta di esistenza molto più vasta e complessa rispetto al primo: non ci sono più paure e inquietudini in primo piano, questa volta si riflette sulla “domanda su quale vita vuoi vivere e allo stesso tempo si mette in chiaro che sei responsabile della vita che stai vivendo ora”. Il tutto all’interno di un concetto, quello di “Recovery”, che riflette l’autobiografico itinerario di liberazione dalle sostanze che James McGovern ha dovuto affrontare negli ultimi anni, ma che al tempo stesso sembra giocare con qualcosa di più profondo, col desiderio di vivere davvero la vita, nella dimensione affettiva e in quella del significato. Non è un caso che le canzoni del disco siano montate all’interno di un loop da un minuto e poco più, che funge sia da intro che da outro, una melodia appena accennata che viene dapprima realizzata al Synth e poi con la chitarra; al centro, sempre l’idea dell’esistenza, che in un primo momento è “Fading” ma poi, dopo che tutte le tracce in scaletta ci sono sfilate davanti, diviene “Changing”.
L’impressione è quindi che l’approdo sia positivo, che la sofferenza sia stata in qualche modo necessaria per arrivare fin qui. È la domanda iniziale che affiora in “Crying” (“Is this our way to escape? Our way through the gates we built?”), una richiesta d’aiuto circonfusa da un discreto vestito elettronico, una graduale progressione che esplode in un mid tempo che tuttavia rimane freddo, distante. Non so se si possa parlare di itinerario salvifico, ma da qualche parte comunque si arriva, se si pensa alla ninnananna di “Belonging”, voce e piano elettrico, e soprattutto alla cupa eleganza della title track, episodio sontuoso dove una certa oscurità per una volta non sembra messa al servizio di un pessimismo esistenziale.
È un disco ostico, molto meno accessibile del precedente, decisamente difficile da afferrare. Le canzoni sono belle, se le prendi singolarmente, ma non si lasciano apprezzare isolate dal proprio contesto, è necessario respirare a pieni polmoni ed ascoltare questi 45 minuti tutti in una volta, per comprendere che cosa c’è dietro. Sono usciti quattro singoli, nei mesi scorsi, ma è stata una semplice concessione al mercato, questo è un album coeso esattamente come se ne facevano una volta, che non tollera riduzioni e parcellizzazioni.
Ancora, la differenza non la fanno quasi mai le melodie portanti, i ritornelli: è negli arrangiamenti, nei piccoli particolari come può essere un’accelerazione ritmica, un Synth o un fraseggio di chitarra che si incuneano ad un certo punto, il modo sempre intelligente e funzionale in cui gestiscono le dinamiche e i crescendo, lavorando sugli stessi elementi melodici e operando micro variazioni che a volte sfociano in esplosioni e a volte vengono trattenute.
Colgono sempre nel segno, sia che ripropongano schemi già provati (l’angoscia rabbiosa di “Return my Head”, il lavoro di accumulazione in “Ethel”), sia che si producano in qualche cosa di diverso (le fredde ed inquietanti geometrie di “The Stars Will Leave Their Stage”, la grandeur a rovescio di “The Lie Becomes the Self”, per chi scrive i due punti più alti dell’intero disco), perché il loro più grande dono, lo abbiamo detto all’inizio, è quello di saper scrivere canzoni, senza farsi troppe domande sul punto esatto della storia della musica in cui sarebbe giusto collocarsi.
Proprio per questo Gigi’s Recovery, ancora di più del pur bellissimo When I Have Fears, è un lavoro che appartiene ad un genere e allo stesso tempo lo travalica, e come tale potrebbe riuscire a consacrare i suoi autori come una delle band più grandi e credibili della scena contemporanea. Tra i pochissimi (in questo momento assieme a loro metterei solo Fontaines Dc e Dry Cleaning, con una possibile opzione per gli Yard Act, ma bisognerà aspettare il prossimo disco), destinati a rimanere anche dopo che tutto questo polverone sarà passato.
Adesso pensate che neanche a questo giro verranno in Italia e traetene le dovute conclusioni.