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REVIEWSLE RECENSIONI
23/10/2019
Elbow
Giants of All Sizes
È un disco scuro, non ha più le aperture ariose del predecessore, adesso c’è come qualche cosa di non ben definito che aleggia, una sorta di nube di malinconia che offusca le pur bellissime melodie dei vari brani.

“Loss is a part of life this long but Dexter and Sinister?”

C’è qualcosa di rassicurante in una band come gli Elbow, capace di sfornare dischi bellissimi ad intervalli regolari, senza mai fare troppi passi al di fuori della loro ideale Comfort Zone. L’ultimo “Little Fictions” aveva in realtà mostrato uno sporadico tentativo di acquisire una dimensione maggiormente “radiofonica” e di arrivare ad un numero più alto di persone (un singolo come “Magnificent” era molto significativo da questo punto di vista) ma non pare ci siano stati risultati consistenti: il bacino d’utenza da cui pescare è rimasto più o meno lo stesso e, oltretutto, a considerarlo nell’insieme, non si è certo trattato di un lavoro memorabile.

A distanza di due anni e mezzo la band di Manchester torna col suo ottavo disco in studio, per farci capire ulteriormente che, di fatto, nulla è destinato a cambiare.

Prodotto dal tastierista Craig Potter, registrato a Berlino, “Giants of All Sizes” (titolo bellissimo ed evocativo, tra l’altro) segna un ritorno deciso alle sonorità che hanno reso celebri Guy Garvey e compagni: già l’opener “Dexter & Sinister”, col suo piglio deciso e il suo groove ipnotico, ci riporta dalle parti di “The Seldom Seen Kid” (a tutt’oggi il loro disco di maggior successo) e soprattutto di un brano come “The Bones of You”.

È un disco scuro, non ha più le aperture ariose del predecessore, adesso c’è come qualche cosa di non ben definito che aleggia, una sorta di nube di malinconia che offusca le pur bellissime melodie dei vari brani. Non è una cosa così esplicita ma la recente scomparsa dei genitori di Guy Garvey potrebbe aver innescato alcune delle riflessioni che stanno al centro dei testi: a partire già dal citato opener, con quel verso così efficace come “Loss is a part of life this long but Dexter and Sinister?”, che mischia privato e politico, con evidenti allusioni alle vicissitudini della Brexit, un dramma che ha evidenziato ancora di più le spaccature del paese tra una “Destra” e una “Sinistra”, ovviamente da intendere in senso lato.

Stessa cosa per “Empires”, episodio già largamente conosciuto, visto che è stato presentato dal vivo nel corso dell’estate (in Italia lo abbiamo sentito a Lucca): “Empires crumble all the time” canta Guy nel ritornello, e non si capisce se stia parlando di Stati o di relazioni umane.

Oppure in “My Trouble”, dove pare si parli di mancanze e di distacchi dolorosi, e in “The Delayed 3:15” che invece tocca il tema del suicidio.

Dal punto di vista musicale, come si diceva, poco è cambiato: la band suona sempre raffinata ed elegante come l’abbiamo sempre conosciuta, in una grandeur quasi classica che è destinata a divenire indimenticabile in sede live (chi li ha visti anche solo una volta sa bene che quello di cui sono capaci).

La classe infinita di pezzi come “Weightless” o la già citata “My Trouble” (degna erede di un grande classico come “My Sad Captains”), la nostalgia profonda che traspare da “Seven Veils”, bastano da sole a dichiarare che gli Elbow hanno centrato nuovamente il bersaglio.

Rimane giusto il rammarico per un immobilismo che rischia di stancare quelli che non siano proprio fan accaniti: a parte “On Deronda Road”, che si muove su suggestioni quasi Country, guardando in generale al territorio del Roots americano, il resto è quasi ordinaria amministrazione; davvero bello ma chi non li ama alla follia, troverà già tutto nell’esordio “Asleep in the Back”, se proprio non si vuole andare sui lavori più famosi. Altri potranno però replicare che non serve cambiare ogni volta, per vincere la partita. Dopotutto gli Elbow sono in giro ormai da vent’anni e sono ancora un gruppo dal talento sopraffino, oltre a non aver praticamente mai sbagliato un disco. Ci si vede il 7 novembre a Milano.


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