Ho visto recentemente i Weekend Martyr dal vivo in zona Bergamo, con in apertura i sempre ottimi Lowinsky. È stata un’occasione interessante per osservare come la dimensione live di un gruppo non debba per forza di cose coincidere con la mera riproposizione delle canzoni registrate, con l’aggiunta semplicemente di un po’ più di dinamica.
Sul palco il trio livornese dà sfogo alla sua natura prettamente psichedelica, partendo dalla forma canzone ma abbandonandola presto per sperimentare con gli strumenti e lanciarsi in fughe spesso dissonanti, in odore di Sonic Youth. Se ricerca e impatto sonoro dominano durante i concerti, il lavoro in studio privilegia ancora la melodia e la fruibilità dell’insieme, seppure all’interno di una proposta che, nel corso degli anni, è andata via via a sporcarsi.
Gastrin è infatti il terzo disco per Riccardo Prianti e compagni, e la produzione ad opera di un nome importante come Marco Fasolo (che ha suonato anche delle chitarre e un piano Rhodes) ha contribuito sia al salto di qualità sia al cambiamento del suono, che si è fatto complessivamente più acido e distorto.
Chitarra sempre in primo piano, a partire dall’ottimo mid tempo dell’opener “Pèrez”, brani tirati fino allo spasimo, come la splendida e anfetaminica title track, oppure il riff saltellante del singolo “Lighter”, che sa tuttavia trasformare la seconda parte in una sorta di psichedelia bucolica.
L’impronta dei Jennifer Gentle da cui Fasolo proviene è evidentemente più marcata rispetto ai precedenti lavori, ma è anche vero che questa virata verso un suono sporco, tra rock alternativo e Garage, è un qualcosa che è fluito spontaneamente e che fa part della ricerca sonora del gruppo, che in questi quattro anni non si è mai adagiata su particolari comfort zone.
Ecco così una interessante varietà sonora: da una “Stranger” molto più lenta delle altre, basso ipnotico, chitarra acustica ed una generale atmosfera narcotica a pervadere il tutto, a una “Stunned” che vive del contrasto tra la strofa scura e il ritornello esplosivo, con tanto di coda all’insegna di un crescendo dissonante; e ancora una “Scammed” che è semplicemente una bomba elettrica ad alto tasso festaiolo, fino ad una “Bog” lenta e ossessiva, dall’arrangiamento minimale, con una tastiera che la fa assomigliare ad una ipotetica composizione dei Bad Seeds, se avessero bevuto più del necessario.
In generale, pur nella breve durata, si può parlare di un disco diviso in due: più veloce e diretta la prima parte, più lenta e ricercata la seconda (colpisce ad esempio la conclusiva “Hands”, chitarra acustica dal sapore orientaleggiante, in qualche modo figlia delle cose più sperimentali di Revolver), così che è difficile fare previsioni su dove la band vorrà dirigersi nel prossimo futuro.
I Weekend Martyr appartengono al novero di quei gruppi di casa nostra che hanno saputo trovare una ricetta originale per esprimere proposte che all’estero hanno sempre funzionato meglio e che godono di maggior attenzione da parte del pubblico. Nel contesto italiano rimarranno sempre delle mosche bianche ma se non altro sono la prova che la nostra scena è molto più viva e variegata di quel che si direbbe ad uno sguardo superficiale (i recenti lavori di Leatherette e Right Profile, tra gli altri, lo dimostrano).