Mi fa stranissimo prendere così poca rincorsa, avere così pochi fuochi d’artificio nell’intro di un pezzo, ma, semplicemente, l’intro è lo stesso disco in questione: c’è stato un verso di questo primo LP di Miglio che, forse per il suo essere ossessivo e martellante, mi ha squarciato il cervello già dal primo ascolto.
Sta in “Sexy solitudini”, quando dice “Vuoi entrare nell’immaginario collettivo?”
Ecco, Alessia ha tirato fuori un’espressione, “immaginario collettivo", che (ripetetela a voce alta per credere) suona come la fotografia sbiadita di un tempo lontano. Non si sente più da nessuna parte, non la usa più nessuno. E forse stona così tanto proprio perché l’idea stessa di “immaginario collettivo” si è persa, affogata in un tessuto culturale sempre più liquido ed informe, cui si aggiunge, in ulteriore aggravante (semmai servisse un’aggravante), una pressochè completa rimozione storica di tutto quello che è stato: è cosa buona e giusta non avere la minima idea di cosa c’è stato prima di noi, perché tanto è vecchio e non ci riguarda, come se ogni timeline cominciasse e coincidesse con le nostre rispettive nascite.
Non ci sono più (o ci sono in casi molto rari) ispirazioni chiare, background strutturati e coscienti: siamo "orfani di origine e di storia, di una chiara traiettoria", ma anche "di una cometa da seguire, un maestro da ascoltare", per dirla con Niccolò Fabi.
E non c’è neanche quella spinta curiosa che plasma lo spirito critico: io posso credere nei film con Gian Maria Volontè, nei libri di Gabriel Garcia Marquez e nei dischi di Lou Reed solo perché, dopo averli visti, letti e ascoltati, mi sono accorto che i film dei Vanzina, i libri di Federico Moccia e i dischi dei Gun’s ’n’ Roses per me erano pattume. Ma sono comunque cose che, nel farmi capire cosa non mi piaceva, mi hanno formato.
L’aspetto più drammatico della faccenda è che si continuano a perdere legami, tanto col passato quanto, soprattutto, col presente: se non hai una grammatica collettiva, finirai per non riconoscere più i tuoi simili. È come una casa senza fondamenta, che però presume di resistere all’uragano Kathrina.
E, giusto per arrivare a noi, questo costante sfilacciamento dei rapporti ha portato dritto dritto anche ad una quasi totale scomparsa delle varie scene musicali. Scene come quella new-wave della Firenze anni Ottanta, o come quella torinese che (in tempi recenti) orbitava attorno a Levante, Bianco, Celona, i Nadàr Solo, non ci sono più. Non esistono più realtà come il santo e venerabile Consorzio Produttori Indipendenti, con quel nugolo di artisti e band (per giunta non solo emiliane) che ci gravitavano nelle vicinanze. Gli ultimi refoli di realtà del genere sono morti a Roma dopo gli anni Dieci, “insieme all’indie” aggiungerebbe qualcuno. Da lì, il nulla.
Così come nulle sono le realtà in cui far nascere un serio discorso di divulgazione musicale, un qualcosa che possa essere capillare e, soprattutto, accessibile, senza gli inutili titoli imbarazzanti a là Rockit o le mille veline passate ad artisti più che opinabili, ma che però pagano bene.
In tutto questo, perciò, è facile immaginare come Miglio (una che, fra Gramsci, Tondelli, la “via Emilia e il West”, ha dei riferimenti abbastanza chiari e visibili) sia arrivata nuovamente, dopo il bell’EP d’esordio dello scorso anno, e scortata, anche in questo caso, dal fido Marco Bertoni, come un qualcosa di quasi alieno.
Roba che il futuro potrà non essere splendido manco per niente, ma noi, intanto, lo raccontiamo.
Disco aperto da una “Techno pastorale” annebbiata dagli uppercut di una cassa dritta e da una linea di basso vorticosa, immersa dentro lagune di elettronica e (è il caso di dirlo) bassipiani letterari in bilico fra citazioni alte e potenza immaginifica, vedi “Ciao amore ciao è una scritta sul muro, dentro c’era tutto, dentro c’era il futuro”.
A seguire arriva “Per non pensare + a te”, scortata da tappeti sintetici, appena attraversati dalle nevrosi elettriche della chitarra, a tracciare solchi lirici che intrecciano malinconie notturne e solitudini urbane, “Ci sono le crepe sopra il cemento che sono i miei sbagli, come segni del tempo, come le incisioni sul ferro. Tutto quello che intanto scorre, a te piace guardarlo, e sai vivere più di me, che ancora non so farlo. Tutto si anima nell’anima, e casa mia diventa una città grandissima dove mi perderò”.
“My future is you” poggia su una scheletrica linea di basso, colorata da piogge torrenziali di sintetizzatori, centratissime nell’accogliere versi malinconicamente fibrillanti come “A cosa ti serve provare a restare in silenzio se tanto ti fotte tutto dentro, ti brucia così tanto. Scorrono veloci, sono i tuoi nervi scoperti come cavi elettrici, sono punti deboli”.
Giro di boa del disco è una “Paesaggi in disordine” che cammina lungo un pattern ritmico quasi marziale, con la chitarra elettrica a distillare fraseggi umidi e l’immancabile elettronica a dipingere un gran crescendo atmosferico. Anche qui, si corre lungo fili dell’alta tensione letterari, con un rincorrersi di immagini tanto nitide quanto nevrotiche, da “Mentire pur di non soffrire. E sono i pensieri veloci quelli più veri, e sono i pensieri veloci quelli più finti” a “Ci sono i paesaggi in disordine, e non sappiamo più dove guardare. Ci sono i paesaggi in disordine, e non sappiamo più cosa fare”.
“Sexy solitudini” (“Non voglio consumare i tuoi sentimenti, non andranno in estinzione i miei sentimenti. proverai a credere in Dio, io proverò a credere a te: che brutta fine, dietro le aspettative”) si colora di synth lunari, scarnificati dai graffi della chitarra elettrica.
“Pestaggio” si arrampica lungo architetture ritmiche brutaliste, aperte dalle incursioni melodiche delle tastiere, che si fanno spazio fra un potentissimo “Stabilire di sentirsi per sempre vivi anche se adesso ci hanno schiacciati” e lo splendido “Istruitevi, agitatevi, organizzatevi” gramsciano, resistente y final.
Penultima traccia è “Sui cassonetti hai scritto”, animata da un piano nebbioso, riempito d’atmosfera dalle visioni rarefatte dell’elettronica e dalla poesia umbratile e dilaniante di “I miei sentimenti li vedo scorrere lenti, diversamente dal solito. Tu non torni, tu non torni più, e allora trovami un modo per sopravvivere, nasci per poi sfiorire dentro le stanze della mia mente. Volevo il cielo, ma dalla mia visuale adesso vedo solo le impalcature”.
A chiudere il disco ci pensa “Industrial”, strumentale che (nomen omen) si dispiega lungo vertigini sintetiche, abrasioni elettroniche e ritmiche viscerali.
Insomma, con questo Futuro splendido Miglio si conferma cantautrice dalla classe assoluta, capace di far vibrare sotto cassa le corde di una scrittura ruvida, malinconica, urbana e, soprattutto, muscolarmente attuale, in cui le collisioni elettroniche, spastiche e politiche degli arrangiamenti fanno da perfetto sfondo.