Ci stiamo (forse) lentamente lasciando alle spalle il Covid ma l’onda lunga dei concerti annullati a suo tempo e ora recuperati è ancora lungi dall’essere terminata. Novembre otto mesi fa era ancora visto come un miraggio, gli appuntamenti annunciati per allora non li prendevo neppure in considerazione, sicuro che sarebbero stati puntualmente rimandati. Non è accaduto, per fortuna, e così, in un giorno in cui a Milano arrivavano anche i Cure (per la milionesima volta senza un nuovo album da promuovere, chissà se alla fine uscirà mai) abbiamo potuto finalmente recuperare anche i Future Islands, di cui oggettivamente non riesco a ricordare quando fosse previsto originariamente il concerto. Il quartetto di Baltimora aveva pubblicato As Long As You Are, sesto lavoro in studio, esattamente due anni fa, ma non era ancora riuscito a portarlo dal vivo, se non altro in Europa.
Per loro si tratta oltretutto della prima volta nel nostro paese dal 2015, quando si erano esibiti all’Ypsigrock, mentre per andare a trovare l’ultimo concerto nel capoluogo lombardo bisogna risalire all’autunno del 2014, nell’ambito del tour di quel Singles che li aveva consacrati come band dalla caratura internazionale. Sono peraltro cose che lo stesso Samuel Herring ricorda al momento di salire sul palco e attaccare “For Sure”, davanti ad una platea di fan adoranti.
Già, il pubblico. Il Fabrique è allestito in modalità “capienza ridotta” ma benché in questo assetto, risulta comunque bello pieno; ad occhio l’età media dei presenti è di circa 30-35 anni, compatibile insomma con quella dei concerti di altri act di questa generazione. Certa musica tra i giovani non tira più da un pezzo, perlomeno da noi, cerchiamo di goderci quel che c’è perché non so per quanto ne avremo ancora.
Ad aprire ci sono i Laundromat da Brighton (città che negli ultimi tempi sembra davvero in fermento in quanto a scena musicale) freschi autori a fine estate di un debut interessante come En Bloc, che in realtà è semplicemente la raccolta dei tre EP realizzati tra l’aprile del 2020 e quello del 2021. Capitanati dal chitarrista Toby Hayes, che si divide le parti vocali con l’affascinante bassista Josephine McNamara, il quartetto si fa notare per una miscela di Math Rock e psichedelia, ritmiche motorik e reiterazioni ipnotiche a ricordare ora gli Stereolab, ora degli LCD Soundsystem leggermente narcotizzati. Nell’impostazione minimale della scrittura mi hanno a tratti richiamato anche i W.H. Lung del primo disco, che di queste sonorità avevano realizzato un compendio filologicamente perfetto. Nella mezz’ora a loro disposizione sfoderano una manciata di brani, quasi tutti tratti dal disco di cui sopra, più i nuovi singoli “Combo” e “Gloss”, usciti nelle scorse settimane. Derivativi, certo, ma dotati di un’ottima scrittura e, cosa che non va mai sottovalutata, dinamici e precisi in sede live. Un gruppo senza dubbio da rivedere, un nome da segnare e da osservare con attenzione.
Siamo poco dopo le 21, il locale si è appena riempito ed ecco le luci spegnersi, una lunga intro sinfonica diffusa dalle casse, i quattro Future Islands che salgono sul palco, la doppietta dal nuovo disco “For Sure”/“Hit The Coast” a far partire il concerto col piede giusto.
L’assetto è quello che ci immaginavamo: il tastierista Gerrit Welmers, il batterista Michael Lowry e il bassista William Cashion allineati sullo sfondo, a lasciare interamente libero il palco per i movimenti di Samuel T. Herring. È infatti il cantante il vero protagonista dello show, a tratti addirittura l’unico attore, visto che i suoi tre compagni stanno perfettamente immobili, suonano le loro parti, ma danno costantemente l’impressione di essere un’entità separata, quasi la backing band di un solista.
Dal canto suo, Herring è una vera forza della natura, si sapeva che c’è soprattutto il suo carisma dietro il successo dei Future Islands ma, non avendolo mai visto dal vivo, sono rimasto comunque stupito. È un frontman di quelli veri, come oggi non se ne vedono praticamente più, dato che le nuove band sembrano sempre di più concentrate a far parlare unicamente la musica, mettendo in secondo piano tutto il resto. La sua è una performance a tutto tondo e senza respiro: balla e canta con intensità pazzesca, vivendo ogni singolo brano e ricreandone le sensazioni, dando corpo ai testi (peraltro di ottimo livello, il nostro è anche un abile paroliere, cosa mai scontata e che costituisce un gran bel valore aggiunto) col calore dell’interpretazione e con una mimica facciale da attore consumato.
Insomma, si prende la scena senza chiedere il permesso e lo fa magnificamente, oltretutto con una simpatia e un buonumore decisamente contagiosi. La reazione del pubblico è entusiasta, soprattutto le prime file sono zeppe di una fanbase urlante e scatenata, scene che personalmente associo più agli anni ’80 e a gruppi come Duran Duran e Spandau Ballet. Con le dovute proporzioni, e considerato che il genere proposto dall’act del Maryland non è poi così diverso, sospetto che possa essere considerato come una delle ultime icone rock oggi in circolazione.
Dal punto di vista prettamente musicale, le cose sono un po’ più complesse. Il gruppo è rodato e bene in palla, la scaletta è corposa e si muove tra tutti i dischi del gruppo, concedendo forse un po’ troppo poco all’ultimo lavoro, che a mio parere è il loro migliore (solo quattro pezzi, tra cui per fortuna la meravigliosa “The Painter”) e proponendo i due singoli appena usciti, “Peach” e “King of Sweden”, oltre ad una piacevole ballata intitolata “Corner of My Eye”, suonata pochissimo e ancora non pubblicata.
Il loro è un Synth Pop leggermente scuro, a tratti ammantato di Wave, a tratti di New Romanticism, in ogni caso è tutta roba di classe, già sentita ma ottimamente confezionata, la splendida voce di Herring ad impreziosire composizioni già di loro perfettamente funzionanti.
Il problema semmai sta nell’eccessiva monotematicità della proposta: è un problema che già si avvertiva su disco e che la dimensione più dinamica del live non riesce purtroppo a risolvere. In breve, le soluzioni adottate, specie in sede di arrangiamento, sono sempre le stesse e sono fin troppo statiche: parti di tastiera efficaci ma poco profonde e fin troppo lineari, batteria che ogni tanto aumenta il ritmo ma che in generale si muove sempre sulle stesse coordinate, l’assenza della chitarra ovviamente voluta ma che in questo contesto costituisce un ulteriore punto a sfavore (Cashion ogni tanto usa il distorsore e rende il tutto più spesso ma non basta per variare la formula). I pezzi sono belli, certo, ma a ben guardare quelli veramente superlativi non sono molti, la sensazione di ripetitività è costante e dopo un po’, almeno nel mio caso, è subentrata la noia. Anche Herring, che è bravissimo e lo abbiamo già detto, alla lunga risulta un po’ troppo uguale a se stesso, voce bellissima ma in possesso di poche soluzioni; ogni tanto si produce in un cantato in stile growl che suona assolutamente senza senso dato il contesto, ma che se non altro diverte. Per il resto, l’impressione è che, a meno che non siate fan sfegatati (e questa sera al Fabrique ce n’erano parecchi) i Future Islands sono una band di cui è impossibile non notare i forti limiti.
In generale comunque è andata bene, concerto piacevole, con la hit “Seasons (Waiting on You)” bene in evidenza (giustamente, visto che è quella che li ha consacrati), unitamente ad altri ottimi episodi come “Plastic Beach”, “Light House”, “Ancient Water” e “A Dream of You and Me”. Finale affidato a “Little Dreamer”, con Samuel che spiega come questo pezzo sia praticamente nato con la band, visto che lo portano in giro da quindici anni; dice che è dedicato ad una persona a cui lui teneva molto e che all’epoca in cui scriveva il brano sperava di riuscire a dimenticare, salvo poi accorgersi che era inutile e che valeva la pena continuare a tenerla dentro di sé. Mentre la canta si commuove, segno ulteriore di come, per lui, le canzoni non diventino mai routine, ma rimangano per sempre parte di chi le scrive, facendo riaccadere le stesse esperienze ogni volta che vengono cantate.
Con tutti i limiti del caso, i Future Islands hanno fatto centro, per quanto mi riguarda attenderò il prossimo disco per capire se tornare a vederli.